«Andate e mangiate tranquilli» disse Jan.
Quando le amiche restarono sole, Ashley annunciò: «Entrate voi due. Io l'ho visto ieri».
Karen e Jan si avviarono lungo il corridoio. Ashley si guardò in giro, prese una rivista e si mise a sedere.
Non aveva fatto caso all'uomo seduto in un angolo, nascosto dietro al giornale. Un attimo dopo la raggiunse e le si sedette accanto.
Era il giovanotto che secondo Nathan era un giornalista senza scrupoli.
«Cosa vuoi?» chiese Ashley con durezza, senza preoccuparsi di parlare a bassa voce. Erano soli nella sala d'aspetto.
«Non urlare» disse lui. «Tutti sono convinti che io sia qui per scrivere un articolo squallido. Neppure i Fresia credono che sia un amico di loro figlio.»
«Io non ti conosco.»
«Sì, ma da quanto non vedevi Stuart?»
Uno a zero per lui.
«Perché non credono che tu sia un suo amico?»
Sospirò. «Perché scrivo per un giornalaccio, anche se sanno benissimo che Stuart lavorava per lo stesso giornale. Non so, forse mi ritengono responsabile. Forse sanno che sono stato io a presentare Stuart al direttore, ed è stato allora che Stuart è uscito di casa. Mi hanno fatto interrogare dalla polizia e ci sono andati giù duri. Non mi credono. Purtroppo sono famoso per titoli come: Sono posseduta dagli spiriti che hanno rapito mio figlio che ha otto mani.»
«Complimenti, gran giornalismo.»
«Mi dà da vivere.»
«Se conoscevi Stuart e sai cosa stava facendo, perché non ne hai parlato con la polizia?»
«L'ho fatto. Ho detto che si interessava di economia, di agricoltura e di quello che sta succedendo alle Everglades. È di questo che si occupava. Voleva far luce sull'inquinamento, sui corsi d'acqua, sulle condizioni ambientali. Ma era molto eccitato. Pensava di avere per le mani qualcosa di grosso. Il problema è che non ho idea di chi o di che cosa si trattasse. E non riesco a capire che cosa c'entri la droga con le sue ricerche sull'ambiente.»
Ashley lo guardò meglio. Doveva avere più o meno la sua età. Capelli castani piuttosto lunghi. Occhi azzurri e sinceri. Ben vestito. Sembrava troppo intelligente e troppo preoccupato per essere uno che scriveva di bambini con otto mani.
«Ho parlato con la polizia e hanno interrogato il direttore del giornale. Ho rivelato anche il nome di due persone importanti che Stuart aveva intervistato prima di sparire dalla circolazione. La polizia ha parlato con loro e sembra che siano puri come gigli. A quel punto mi hanno detto di tacere e di smetterla di rompere. Credo che non mi prenderanno mai sul serio, qualsiasi cosa io dica.»
«Allora perché ti rivolgi a me? Perché dovrei stare ad ascoltarti dopo tutti i guai che hai combinato?»
Lui si strinse nelle spalle e sorrise, un sorriso triste. «Ho sentito dire che frequenti l'accademia e so che anche tu non credi che Stuart facesse uso di droga. Forse, se c'è qualcuno che può fare qualcosa per Stuart, questo qualcuno sei tu.»
Ashley lo osservò ancora. Sembrava sincero. Aveva cercato di essere di aiuto e la cosa gli si era rivoltata contro.
Credeva in Stuart. Era questo l'importante. Ashley non dava mai giudizi affrettati sulle persone, ma quel tizio le sembrava più serio di quanto pensasse Nathan.
Alla fine sorrise. «Mi dispiace. Non faccio più parte dell'accademia.»
Lui si accigliò, preoccupato. «Ti hanno sbattuta fuori? Non ci credo, non dopo quello che Stuart mi ha raccontato di te.»
«Ti ha parlato di me?»
«Sì, è successo per caso. Circa un anno fa siamo andati al locale di tuo zio. Tu non c'eri. Mi ha detto che siete cresciuti insieme, che eravate molto amici e che aveva intenzione di telefonarti. È stata la barista a dirci che pensavi di entrare all'accademia di polizia.» Le sorrise. «Vorrei essere d'aiuto. Sono un buon investigatore.»
«E credi di riuscire a scoprire qualcosa in più della polizia?»
«L'ho già fatto.»
13
Jake era ancora seduto nel portico. Marty se n'era andato da un buon quarto d'ora. La conversazione non era durata molto. Jake gli aveva detto che aveva sentito il bisogno di tornare nei luoghi dove aveva avuto sede la setta, tanti anni prima. Il nuovo proprietario, un agricoltore, era stato gentile e l'aveva lasciato libero di vagare per la proprietà. I campi coltivati e ben tenuti terminavano dove iniziava il canale. Jake era rimasto lì a lungo, a fissare l'acqua e a pensare.
La proprietà era piuttosto distante dal luogo del ritrovamento dell'ultima vittima.
Però era solo pochi chilometri a ovest rispetto al punto dove l'auto di Nancy si era inabissata nel canale. Non che ci fosse qualcosa di strano. Molte delle fattorie e delle aziende agricole nella zona sfruttavano la terra strappata alle Everglades. I canali e le idrovie si intersecavano su quasi tutto il territorio circostante.
Mentre Jake passeggiava, lo aveva raggiunto la moglie del fattore.
«Abbiamo pagato pochissimo questo posto» gli aveva detto preoccupata. «Non sarà perché un giorno o l'altro inciamperemo in un cadavere?»
«Spero proprio di no» le aveva risposto Jake.
Marty gli aveva chiesto che cosa si aspettava di trovare, dopo tanti anni.
«Non lo so. So solo che è come se fossimo di fronte a qualcosa che però non riusciamo a vedere» aveva detto Jake.
Marty non gli aveva creduto. Ma Marty non aveva assistito al colloquio con Peter Bordon e non lo aveva sentito parlare di fumo e specchi.
Poi lo aveva aggiornato sulla riunione della squadra e su ciò che era accaduto all'obitorio.
«Domani i giornali pubblicheranno l'identikit e avremo in mano qualcosa. Ne sono sicuro» aveva concluso Jake.
Marty lo aveva fissato in modo strano. «I disegni sono così buoni?»
«Eccezionali. Se la ragazza era di queste parti, qualcuno si farà vivo.»
«Allora perché ti sei comportato così male con chi li ha fatti?»
Jake si era irrigidito. «Te lo ha detto lei?»
«No. Sono anch'io un detective, ricordi? Capisco le persone.»
Poi Marty se n'era andato e Jake era rimasto lì, perso nei suoi pensieri a fissare la tazza vuota.
«Ehi, Jake. Posso offrirti una birra?»
Lui sobbalzò. Alzò lo sguardo e vide Sandy in piedi accanto al suo tavolo. Si domandò da dove fosse saltato fuori.
«Offre la casa» aggiunse con orgoglio Sandy. «Stasera aiuto a servire.»
«Come mai?»
«Sono tutti all'ospedale, a trovare quel ragazzo.»
«Anche Nick e Sharon?»
«Già. Katie è rimasta da sola e le do una mano.»
«Sono andati tutti insieme?» chiese Jake.
«No. Nick e Sharon sono andati per conto loro. Credo che l'idea sia stata di Sharon. Ha pensato che ai genitori avrebbe fatto piacere mangiare qualcosa di buono. Così lei e Nick sono usciti prima. Ashley doveva passare a prendere delle amiche, credo. Allora, ti va una birra?»
«No grazie, Sandy. Ho parecchio da lavorare. Non so neanche perché sono ancora seduto qui.»
«La mente lavora sempre, Jake.»
«Non abbastanza, purtroppo.»
Sandy sembrò esitare, la fronte aggrottata. «So che non sono affari miei» disse con calma, «ma vacci piano. Lo sanno tutti che ti ritieni responsabile per la tua collega e che questo nuovo caso sta facendo tornare a galla il passato, come uno schiaffo in piena faccia.»
«Sai troppe cose, Sandy.»
«Non ho molto da fare se non il ficcanaso. Tu sei in gamba, davvero in gamba, ma stacca ogni tanto. Commettiamo tutti degli errori, e tutti devono scendere a patti qualche volta. Ti ho visto l'altra notte con Brian Lassiter. Quel cretino che trattava male la moglie, che la rendeva infelice, così anche se tu...» Si interruppe. «Non è stata colpa tua, Jake. A volte bisogna lasciar perdere.»
«Grazie del consiglio Sandy.» Si alzò. «Un'altra volta accetterò quella birra.»
«Ho capito, la accetterai quando dovrò pagarla con i miei soldi.»
Jake sorrise e lo salutò, poi andò alla Gwendolyn. Come era diventata sua abitudine negli ultimi tempi, controllò bene la porta e la serratura prima di inserire la chiave. Non si era ancora deciso a farla cambiare.
Una volta dentro collegò il computer. Fece scorrere una lista di nomi. A un tratto uno dei nomi gli saltò agli occhi.
John Mast.
Mast era morto.
Fumo e specchi.
Quindici minuti dopo, si rese conto che stava ancora fissando lo schermo.
Tutti pensavano che stesse girando a vuoto. Un incidente. Era la conclusione logica per la morte di Nancy. Lui però sapeva che non poteva essere andata così.
Lo sapeva.
E si stava comportando con Ashley Montague esattamente come gli altri si comportavano con lui.
Con buonsenso, logica e razionalità. Peccato che a volte il buonsenso, la logica e la razionalità non servissero a un bel niente.
Pensieroso, spense il computer.
«Devo andare» annunciò all'improvviso l'uomo seduto accanto ad Ashley.
Si alzò. In quel momento anche lei sentì quello aveva sentito lui, un rumore di passi che si avvicinavano.
«Mi spiace.»
«Aspetta!» esclamò Ashley. Anche se quel tizio era solo un giornalista da strapazzo, era riuscito a catturare la sua attenzione. Si alzò anche lei. «Non puoi ancora andare, non mi hai ancora detto...»
«Devo andarmene di qui, prima che qualcuno pensi che ti sto importunando.»
«No, non puoi. Voglio sentire tutta la storia.»
«Mi metterò in contatto con te, non preoccuparti.» Era già sulla soglia.
«Aspetta!» Si precipitò alla porta, ma lui era già scomparso. Vide arrivare i Fresia.
«Ci avete messo poco» disse.
«Non ci piace stare via troppo tempo» spiegò Lucy.
«Karen e Jan sono con Stuart» li informò Ashley. «Vado a vedere se stanno uscendo.»
«Non c'è fretta, tesoro. Dormirò un po' qui sulla poltrona. Nathan va a casa a fare una doccia, cambiarsi e sbrigare alcune faccende, poi torna a darmi il cambio.»
Ashley si avviò lungo il corridoio. Quando fu nella stanza di Stuart, Karen e Jan le cedettero il posto. Le condizioni dell'amico erano stazionarie, ma le sembrò meno pallido. Gli prese la mano e cominciò a parlargli. Gli raccontò com'era andata la sua giornata. Gli disse dell'attrazione che provava per Dilessio, di quanto si sentisse stupida per aver passato la notte con lui. E che a volte la vita gioca questi scherzi, ti fa perdere la testa e innamorare di chi non dovresti. Poi rimase in silenzio per qualche minuto, come se non avesse altro da dire.
«Oh, un tuo amico, uno del giornale, così ha detto, mi ha avvicinata e ha iniziato a parlarmi. Non so neanche come si chiama, ma posso scoprirlo. Tuo padre non lo sopporta, io però vorrei incontrarlo ancora.»
Guardò l'orologio. Non si era resa conto di essere stata con lui così a lungo.
«Adesso vado, così tua madre può stare un po' qui con te.» Lo baciò sulla fronte e gli strinse forte la mano, poi uscì.
Raggiunse la sala d'attesa e fu stupita di vedere che era arrivato anche Len Green.
«Ciao» lo salutò. «Che cosa ci fai qui?»
«Sono un semplice poliziotto, ma volevo dire ai Fresia che se hanno bisogno di qualcosa possono contare su di me.»
«Grazie Len.»
«Così abbiamo una scorta per il garage» osservò Jan allegra.
«Una scorta alta e bella» aggiunse Karen. «E con tanto di pistola.»
«C'è bisogno della pistola per andare nel garage?» chiese Lucy preoccupata.
«No, è solo che è un po' buio, e con tutte quelle ombre» si affrettò a spiegare Ashley. Rivolse a Karen uno sguardo di disapprovazione. Non voleva che i Fresia si preoccupassero. «Adesso è meglio se ce ne andiamo, così potete riposare» aggiunse.
Li salutarono e si allontanarono.
Quando uscirono dall'ascensore, al piano del parcheggio, Karen le chiese perché non volesse dire niente ai Fresia.
«Non hai detto niente neanche a me» la rimproverò Len.
«Non ne ho avuto l'occasione» rispose Ashley. «E poi, cosa avrei potuto raccontare? Pensano tutti che sia un po' matta, perché sono convinta di essere stata inseguita da qualcuno con un camice da ospedale, all'interno del garage dell'ospedale.»
«Mai pensato questo di te» precisò Len.
«Comunque non voglio aggiungere altre preoccupazioni. Mi sembra che ne abbiano già abbastanza» borbottò Ashley.
Mentre camminavano, Karen si fermò di colpo. «Zitti...» mormorò.
«Che c'è?» chiese Jan.
«Dei passi, vengono verso di noi.»
Rimasero in silenzio.
«Provengono dall'ascensore» bisbigliò Karen.
«Non muovetevi» ordinò Len, infilando una mano sotto la giacca a vento.
«Vengono da questa parte» sussurrò Karen.
Era vero, ma erano passi tranquilli, non sembrava che stessero inseguendo nessuno.
Apparve una sagoma. Si avvicinava a loro, illuminata dalle deboli luci al neon del soffitto.
Alto. Moro. Spalle larghe.
Quando fu più vicino e in piena luce, Ashley lo riconobbe.
«Jake Dilessio» disse Ashley. Tirò un sospiro di sollievo.
Anche lui li vide e si diresse deciso verso di loro.
«È il tipo che hai disegnato» osservò Karen.
«È un poliziotto» dichiarò Len.
Ashley lo guardò stupita. «Lo conosci? Perché non mi hai detto chi era, quando eravamo a Orlando?»
La guardò senza capire. «Era anche lui a Orlando?»
«No, quella notte al club, quando l'ho disegnato.»
Len continuava a non capire.
«Era andato a pagare il conto» spiegò Karen.
Dilessio li raggiunse.
«Detective» mormorò Len. «Come mai da queste parti?»
«Sono venuto a vedere come sta Stuart Fresia. E tu?»
«Anch'io. Sono amico di Ashley» spiegò.
«Capisco.»
«Loro sono Karen e Jan, due mie care amiche» disse Ashley. «Non sapevo che voi due vi conosceste.»
«Sono tutti e due poliziotti, Ashley» le fece notare Karen.
«Ci sono migliaia di poliziotti in città. Di certo non si conoscono tutti» rispose Ashley, sulla difensiva.
«Tutti conoscono il detective Dilessio. È venuto diverse volte a farci lezione, quando ero all'accademia» disse Len.
«Qualche novità per i Fresia?» chiese Ashley.
«No, mi spiace. Sono venuto solo per informarli che ho parlato con Carnegie e che farò il possibile. Mi hanno detto che eravate appena andati via. Speravo di trovarvi ancora qui.» La fissò con quel suo sguardo intenso.
«E...?»
«Sei in compagnia adesso. Parleremo più tardi.»
«Accompagno Karen e Jan e poi torno a casa» puntualizzò Ashley.
«Allora vado, ci vediamo dopo. Karen, Jan, è stato un piacere conoscervi. Len, lieto di averti rivisto.»
«Piacere mio» rispose Len.
Dilessio si allontanò.
«Che cosa voleva?» chiese rigido Len.
«Ho fatto un identikit per lui. Forse devo rifarlo.»
«Ma non può cercarti fuori dall'orario di lavoro» commentò scocciato.
«No, sono io che gli ho chiesto di tenermi aggiornata su Stuart» si affrettò a precisare Ashley. «Lo vedrò più tardi da Nick.»
«Se hai fretta di tornare a casa, noi possiamo prendere un taxi» disse Karen.
A quel punto Len intervenne e propose con galanteria: «Vi accompagno io, sarà un piacere. Prima però scortiamo Ashley fino alla sua auto, per sicurezza».
«Len, sei un tesoro. Davvero non è un problema per te?» chiese Ashley. «Sono curiosa di scoprire cos'ha da dirmi.»
«Nessun problema, tranquilla.»
Ashley mise in moto e dovette controllarsi per non superare i limiti di velocità. Moriva dalla voglia di tornare a casa.
Len Green accompagnò prima Jan. Quando fu da solo con Karen portò la conversazione su un piano più personale.
«Ashley ha avuto proprio la sua grande occasione, alla scientifica. È fortunata a lavorare con Dilessio, è molto stimato al dipartimento.»
«Ed è anche un bell'uomo» commentò Karen, poi si voltò a guardarlo. «Forse un po' troppo tenebroso per i miei gusti. Sembra uno che non si lascia mai andare, che non si diverte mai. Troppo serio. Tu invece sei un bravo poliziotto, ma l'altra sera, a Orlando, ci siamo divertiti. Non ricordo se ti ho ringraziato abbastanza per la serata.»
«Sì che l'hai fatto» disse Len a bassa voce. Era così vicina. Provò l'improvviso desiderio di conoscerla meglio. Molto meglio. «Ci vediamo alla festa per la promozione di Ashley?»
«Certo, siamo state invitate. Ecco, abito lì.»
Len parcheggiò nel vialetto. «Bel posto. Vivi da sola?»
«Sì. La casa non è molto grande, ma è mia. Mia e della banca, in realtà.» Lo guardò. «Entri un attimo?»
«Volentieri. Sicura che non sia troppo tardi?»
«No, per niente. Non vado mai a dormire prima di mezzanotte. Vieni. Ti preparo un caffè, un tè, quello che vuoi. Ho anche della birra. Ah già, dimenticavo, sei un poliziotto e devi guidare...»
«Potremmo berci prima la birra, e dopo il caffè» le propose Len con un'espressione ambigua.
Karen sorrise. «Certo.»
Entrarono e Karen gli mostrò la casa, che era piccola ma graziosa e ben arredata. Quindi gli portò la birra, accese lo stereo e si sedettero sul divano, a chiacchierare.
«Ne vuoi un'altra?» chiese Karen quando lo vide fissare la bottiglia vuota. «Ma poi devi guidare.»
«Sì, mi andrebbe un altro bicchiere, ma...»
«Vuoi fermarti a dormire? Questo è un divano letto, mi fa piacere se resti.»
Era vicina a lui. Le lunghe gambe raccolte sul cuscino. Le sfiorò il mento.
«Non credo che riuscirei a dormire sul divano» mormorò.
La sentì trattenere il respiro.
«Non credo di volere che tu dorma sul divano» disse Karen.
Len si abbassò un poco e la baciò piano. Quando si staccarono, Karen aveva il respiro leggermente affannato.
«Ti prendo la birra» sussurrò.
Sparì in cucina. Poi Len si sentì chiamare. Si voltò. Karen era sulla porta della camera da letto. Nuda.
Len si alzò, stringendo i pugni lungo i fianchi.
«La tua birra è qui che ti aspetta» sussurrò Karen con una voce bassa e sensuale.
«Davvero?» rispose piano Len.
Lei entrò nella stanza e lui la seguì. Ora era distesa sul letto, provocante, invitante. Len la fissò a lungo. Ogni muscolo in tensione. Era l'amica di Ashley.
«Allora, agente?» lo stuzzicò.
Le andò vicino e lei urlò.
Ma solo per un istante.
Ashley parcheggiò e si diresse subito verso la barca di Dilessio. Passò accanto al portico, dove c'erano solo pochi tavoli occupati, perlopiù da coppie in procinto di trascorrere una serata romantica, poi si affrettò lungo il sentiero che portava al molo.
Più si avvicinava alla barca di Jake, però, più rallentava l'andatura. Esitava, a disagio, nonostante fosse stato lui a dirle che voleva parlarle.
Procedette sempre più lenta, senza fare rumore. Così avrebbe potuto cambiare idea e andarsene in qualunque momento. Guardò la barca. Le tende erano tirate, ma la luce all'interno doveva essere accesa. La sensazione di disagio crebbe e lei rallentò ancora il passo.
Il cuore le martellava nel petto quando raggiunse la barca. Salì sul ponte e rimase immobile per alcuni interminabili secondi, prima di avvicinarsi alla porta. Sollevò la mano come per bussare. La porta si aprì.
Aveva sbagliato. Le luci erano spente. Stava per chiamarlo quando sentì un sibilo. Troppo tardi. Cercò di voltarsi, provò a urlare, ma venne afferrata alle spalle, senza poter vedere da chi. Restò senza fiato e il grido si ridusse a un rantolo silenzioso.
Si ritrovò a volteggiare in aria, per poi finire a terra, schiacciata sotto un peso pari a quello di un masso. Aprì la bocca per urlare, cercò di respirare e di pensare lucidamente, nonostante lo stordimento causato dal colpo.
Una mano le tappò la bocca.
Il grido le morì in gola.
Lucy Fresia si svegliò di soprassalto, senza capire il perché. Si guardò attorno nella stanza semibuia e non vide niente.
Con un mezzo sorriso triste si disse che tutto il tempo passato a vegliare il figlio le stava distruggendo il sistema nervoso.
Si appoggiò allo schienale. Stuart era sempre nella stessa posizione, non l'aveva mai cambiata da quando era stato portato in ospedale. La stanza era tranquilla, le luci basse e soffuse, tutto era silenzioso.
Si alzò di scatto.
Silenzio.
Non doveva esserci silenzio. Avrebbe dovuto sentire il rumore del respiratore, quel ronzio lento, regolare e costante che ormai faceva parte del suo mondo.
Si precipitò accanto al figlio. Il viso stava diventando bluastro.
Osservò i monitor. Nulla.
Stuart non respirava. Il cuore non batteva.
Lucy corse alla porta, la spalancò e gridò per chiedere aiuto. Arrivò subito un'infermiera, che comprese la situazione e diede l'allarme alla sala infermiere. Mentre il personale ospedaliero accorreva nel corridoio e nella stanza, Lucy venne allontanata.
Lucy iniziò a urlare, sembrava che fosse lei sul punto di morire. Si lasciò cadere a terra e continuò a urlare.
Fino a quando qualcuno non le afferrò il braccio e le fece un'iniezione.
«Ashley?»
La mano si spostò dalla sua bocca.
«Jake?» disse incredula.
Il masso si spostò. Nel buio una mano cercò la sua e l'aiutò a rialzarsi.
Poi si accese una luce e Ashley lo vide. Indossava solo il costume. Aveva le mani sui fianchi e uno sguardo truce.
«Perché mi stavi spiando?» chiese.
«Non ti stavo spiando» rispose indignata. «Hai detto che volevi parlarmi. E tu? Cosa credevi di fare? Aggredisci tutti quelli che vengono a trovarti?»
«Camminavi in punta di piedi. E da quando qualcuno è stato qui...»
«Era buio. Non sapevo se c'eri, se dormivi, se... Qualcuno è stato qui?»
«Sì, la notte scorsa. E sono tornati. Ne sono sicuro.»
«Hanno rubato qualcosa?»
«Non essere ridicola.»
«Non sono ridicola. È un'ipotesi perfettamente logica. Perché mai qualcuno dovrebbe violare il territorio del grande detective Dilessio? Solo per poter dire di essere stato sulla sua barca?»
Jake la squadrò furioso e uscì sul ponte. Guardò verso il ristorante.
Tutto tranquillo.
Si voltò di scatto. «Stai bene?»
«Certo. Mi piace da pazzi essere sbattuta a terra. Ed è meraviglioso essere quasi soffocata.»
Jake allungò una mano per toccarla e lei fu sul punto di arretrare impaurita. Ma non si mosse. Lui le massaggiò la nuca.
«Stai davvero bene?»
«Un po' scossa, ma bene» rispose, stupita dal cambiamento di tono nella voce.
Jake smise di massaggiarla e tornò a scrutare la notte.
«Ma cosa succede, Jake?»
«Non lo so.»
«Allora...»
«È la seconda volta che qualcuno sale a bordo.»
«E non è sparito niente?»
«No. Non che io sappia.»
«Allora perché sono venuti?»
«Non lo so. Forse cercavano qualcosa.»
«Cosa?»
Scosse la testa. «Non lo so.»
«Avevi chiuso a chiave?»
«Sì.»
«C'erano segni di effrazione?»
«No.»
«Allora...»
«Questa volta è colpa mia. Avrei dovuto far cambiare la serratura.»
«Qualcun altro ha la chiave?»
«Nick.»
Ashley s'irrigidì. «Nick non salirebbe mai a bordo della tua barca senza il tuo permesso. E se pensi che non abbia custodito con la dovuta attenzione la chiave, allora è meglio che gli chiedi di restituirtela. Sono sicura che la tiene solo per farti un favore, per aprire agli operai quando tu non ci sei, oppure...»
«Mi fido ciecamente di Nick» la interruppe.
Ashley rimase in silenzio per qualche secondo. «Allora?»
Jake si strinse nelle spalle. «Anni fa... c'era un'altra copia della chiave.» Socchiuse gli occhi. «Il mio collega ne aveva una. Tanto tempo fa. Non era Marty.»
«La donna che è morta?» chiese Ashley sottovoce.
La guardò dritta negli occhi. «Sì.» Tornò a osservare le luci attorno al bar e si strinse di nuovo nelle spalle. «Non ci avevo più pensato. Fino a qualche giorno fa. Credevo che potesse averla il marito, ma lui sostiene di no.»
«Forse mente.»
«Forse.»
«Perché non chiami qualcuno per far rilevare le impronte? Magari riescono a trovare qualcosa.»
Jake annuì, ma non sembrava molto convinto.
«Sono pronto a scommettere che chiunque sia salito a bordo della Gwendolyn è stato ben attento a non lasciare impronte. Probabilmente indossava i guanti.»
Ashley aspettò qualche istante prima di ribattere. «A bordo non manca niente, eppure sei convinto che qualcuno sia stato qui. Con i guanti. Non voglio dubitare di te, ma non credi che potrebbe essere solo paranoia perché... perché un vecchio caso, che tutti considerano chiuso, è tornato d'attualità?»
Jake sorrise, un sorriso un po' triste. «No, non sono paranoico, ma forse un po' ossessivo sì. Vivo da solo. So come metto le cose e dove. E riesco a capire se sono state spostate, anche se di poco. Le cose non sono come le ho lasciate. I fogli sulla mia scrivania sono più storti. Il tappeto ai piedi della scaletta è staccato di una frazione di centimetro. Cose di questo genere.»
«Ma perché?»
«Non lo so. Qualcuno deve essere convinto che io possieda qualcosa. Ma non ho la minima idea di cosa.»
Si voltò e fece per entrare in barca. Ashley lo guardò perplessa.
Si fermò. «Tu non vieni?»
«Io... io ero venuta perché...»
Lui era già all'interno. Lo seguì lenta.
«Ti fermi?» chiese Jake.
Quella domanda tanto diretta la stupì. Non sapeva se doveva essere indignata per l'aggressione, preoccupata del fatto che lui fosse convinto che qualcuno avesse messo piede sulla barca, oppure semplicemente furiosa per il modo in cui l'aveva trattata all'obitorio.
«Di cosa volevi parlarmi?» chiese Ashley. Si sforzò di usare un tono calmo e deciso.
Jake sollevò un sopracciglio. «Volevo scusarmi, naturalmente.»
Tutta la sua indignazione svanì come un cubetto di ghiaccio all'equatore. Non avrebbe dovuto perdonarlo con tanta facilità.
«Ti fermi?» ripeté.
Lei annuì.
14
Un attimo dopo era fra le sue braccia. Avvolta dal calore di un bacio che le sconvolse i sensi, la mente, il corpo. Fu un intrecciarsi eccitato di labbra, mani, lingue, sempre più esigenti, insistenti, appaganti. Non era un semplice bacio, era come fare l'amore. Voleva di più, sempre di più. Riuscì a staccarsi un poco da lui. Sentì quanto la desiderasse attraverso la leggera stoffa del costume. Scostò l'elastico e lo abbassò. Lui emise un gemito e continuò a baciarla con passione. Un fuoco. Senza smettere di baciarla, Jake insinuò le mani, ansiose di trovare la sua pelle, sotto la maglietta, sotto il pizzo del reggiseno, fino ai capezzoli inturgiditi. Li accarezzò con movimenti erotici, ma lei era decisa a non lasciarsi andare, a dedicarsi interamente a lui. A strappare il piacere dal suo corpo. Lo prese fra le mani. Lo accarezzò.
Il bacio si interruppe. La maglietta volò via. Ora lui la baciava sul collo e lei gli si aggrappò alle spalle. Si rese conto di non toccare più terra, di essere seduta sul bancone della cucina. Dita esperte avevano slacciato il reggiseno. Cercò di liberarsi delle scarpe, sentì che le apriva i jeans. Di colpo lui la attirò a sé e affondò le mani fra i pantaloni e la pelle, le strinse le natiche e i jeans scivolarono a terra, accanto al costume. Le sue braccia forti la sollevarono in alto, sempre più in alto e poi lentamente giù, sopra di lui. Restarono fermi così, per un attimo che durò un'eternità, poi la posò di nuovo sul bancone. Il mondo svaniva in un vortice. Non le importava più di niente, se non di averlo dentro di lei. Con le lacrime agli occhi si arrese al desiderio. Lo teneva così stretto che lui riuscì a fatica a staccarsi un poco, per poterla baciare ancora, le spalle, il collo, la bocca, le labbra, fino a toglierle il fiato.
Il mondo reale non esisteva più, eclissato dal battere eccitato dei loro cuori. Lei aveva solo una vaga sensazione dei loro corpi sudati, dei suoi muscoli, del bancone su cui era seduta. Era avvinghiata a lui, tesa, eccitata, gemeva, senza poter parlare. Si agitò, si inarcò per accoglierlo sempre di più. Poi lo bloccò contro di sé, annullata nel piacere che raggiungeva il culmine e che sembrava disintegrarla in mille pezzi. Con un ultimo fremito lui si unì a lei nel piacere e restarono così, uniti, tremanti, perduti.
Si abbandonò a lui. Lo baciò su una spalla. Non era più pentita di averlo perdonato così in fretta, di aver ceduto tanto facilmente. Nessuno l'aveva mai trattata con una dolcezza simile. La prese in braccio con delicatezza e la portò nella cabina. La adagiò sul letto ancora disordinato dalla notte prima, si sdraiò accanto a lei e la abbracciò. Lei sorrise. Dopo qualche momento si voltò a guardarlo.
Per un attimo fu prigioniera di quello sguardo serio e delle emozioni che lasciava intuire, poi bisbigliò: «Ho dimenticato di chiederti se le scuse erano per avermi assalita o per come ti sei comportato all'obitorio».
Stupita dalle sue stesse parole, trattenne il fiato. Riprese coscienza della realtà, del letto, delle lenzuola stropicciate, delle braccia forti e sudate attorno a lei, dei lineamenti del suo viso, dei capelli, di quello sguardo tenebroso.
«Per tutte e due le cose.» Le scostò un ricciolo dalla guancia. «Tutte e due. Mi hai colto di sorpresa oggi pomeriggio. Non sapevo neppure che possedessi una matita, figurarsi che avessi un talento simile. Credo di essermi arrabbiato proprio perché invece avrei dovuto saperlo. Ora che ci penso, anche tu mi devi delle scuse.»
«Io ti devo delle scuse?»
«Avresti dovuto dirmi che pensavi di lasciare l'accademia.»
«Be'» iniziò con la voce un po' roca, «non si può certo dire che siamo amici da anni. Io non ti conosco. E tu non conosci me.»
Il sorriso triste che gli sfiorò le labbra la sorprese.
«Credevo di conoscerti, almeno un poco. Quanti uomini della polizia sanno che hai un piccolo tatuaggio a forma di fiore in fondo alla schiena? O della piccola cicatrice all'interno della coscia destra?»
Lei arrossì, per vergognarsene subito dopo.
«A dire la verità, non ero neppure sicura di piacerti.»
Lui scoppiò a ridere e la attirò a sé. «Ma che caratterino, signorina Montague.» La risata svanì. «Unito alla tenacia di un bull terrier.»
«Detto da un uomo tanto dotato di tatto e di gentilezza...»
«Senti chi parla, ti ricordi di quando mi hai ustionato?»
«Non vedo cicatrici. Niente di permanente.»
«È più permanente di quanto tu immagini» rispose piano, dopo un lungo momento di silenzio.
Quella frase, pronunciata con semplicità, le si allargò nel cuore. Tornarono a baciarsi e questa volta furono molto più vicini, molto più intimi di quanto non fossero mai stati prima.
Jake si staccò da lei, si appoggiò su un gomito e la guardò.
«Non lo sapevo, non sapevo cosa mi avrebbero chiesto di fare. Non avevo ancora deciso di accettare l'incarico quando... quando ci siamo visti. Ho accettato solo stamattina.»
Lui la guardava in silenzio.
Aveva il timore di parlare troppo, ma proseguì. «So benissimo che avermi trovata lì, a lavorare al tuo caso, è stata una sorpresa per te. E che... insomma, di solito le persone prima si frequentano e si conoscono e poi fanno sesso, non il contrario.»
La voce le morì in gola. Non avrebbe neppure saputo come definire quello che c'era fra loro.
«Signorina Montague?»
«Sì?»
«Taci» le ordinò.
Poi la baciò di nuovo. Con la stessa tenerezza ma con più urgenza. Bastò quello per eccitarla. Si ritrovò fra le sue braccia, sommersa dal calore del suo corpo, fino a quando il desiderio prese il sopravvento sulla tenerezza. E di nuovo perse ogni cognizione del luogo, del tempo, dello spazio.
Più tardi, sdraiata al suo fianco appagata ed esausta, si addormentò. Quando si risvegliò vide che anche lui era sveglio.
«Jake?»
«Sì.»
«Perché sei venuto in ospedale stasera? Hai forse scoperto qualcosa?»
«No, purtroppo» rispose senza guardarla.
«Ma mi credi? Sei convinto anche tu che ci sia qualcosa di strano in quello che è successo a Stuart?»
Jake rimase in silenzio per qualche istante, poi si voltò verso di lei. «Non so a cosa credere. L'unica cosa che so con certezza è che Carnegie è un ottimo poliziotto. Posso indagare per conto mio, provare a scoprire qualcosa su quel giornale per cui lavorava, ma tu devi cercare di capire se le tue certezze sono fondate oppure se...»
«Se cosa?»
Si sollevò su un gomito e le parlò in tono serio. «Se per caso ti senti in colpa perché sei andata a letto con lui e poi vi siete persi di vista.»
Ashley si sentì come se le avessero rovesciato addosso un secchio d'acqua ghiacciata. Si irrigidì, poi si alzò anche lei per trovarsi a guardarlo dritto negli occhi. Quell'insinuazione non meritava neanche una rettifica.
«Proprio come tu sei convinto che qualcuno si sia introdotto sulla tua barca, ma in fondo il vero motivo di tutto è che sei andato a letto con la tua compagna?»
La violenza della sua reazione la stupì. Non la toccò. Si alzò in piedi di scatto e uscì.
Ashley rimase immobile. L'aria nella cabina adesso era gelida. Si morsicò un labbro, si alzò a sedere sul letto e decise che qualunque cosa fosse ciò che stava succedendo con Dilessio, ormai era finita. Non cercò neanche di pensare a come si sarebbe sentita. Sapeva solo che doveva andarsene da lì.
Cercò i vestiti e si ricordò che erano rimasti nel soggiorno. Uscì dalla stanza con tutta la dignità che le riuscì di recuperare e scese i due gradini. Dalla porta aperta entrava l'aria fredda e salmastra dell'oceano. Cercò di radunare le sue cose e trasalì quando sentì la sua voce.
«Non andartene.»
Jake rientrò e chiuse la porta. La raggiunse e le prese la testa fra le mani.
«Non andartene. Vorrei parlarti, se hai voglia di ascoltarmi» disse guardandola negli occhi.
Lei annuì. «Ti ascolto.»
«Non sono mai stato a letto con Nancy. Mai. Non so chi ti abbia detto il contrario e non m'importa. Erano in molti a pensare che fra noi ci fosse qualcosa. Ma non è mai successo niente. Lei era sposata. Io l'amavo, questo è vero, ma non abbiamo mai fatto l'amore. Ci siamo andati molto vicini in qualche occasione, ma uno dei due si è sempre tirato indietro. Lei perché credeva nel matrimonio. Io perché l'amavo. E volevo che fosse libera di decidere se provare a salvare il rapporto con Brian o divorziare. La conoscevo bene, come raramente mi è capitato di conoscere qualcuno. Se sono così convinto che ci sia qualcosa di strano sotto la sua morte è solo perché la conoscevo, non perché avevo una relazione con lei. Non si è suicidata. E non ha deciso di darsi alla droga e all'alcol perché era depressa. Non m'importa quello che dicono gli psicologi della polizia. Non è andata così.»
Tacque. Il suo sguardo era capace di non lasciare trasparire nulla oppure, come in quel momento, di illuminarsi di ardore e di convinzione.
«Sai una cosa?» disse Ashley.
«Cosa?» chiese preoccupato. Si era aspettato una reazione diversa.
«Non sono mai stata a letto con Stuart. Era un mio amico, il mio migliore amico.»
Lui le sorrise.
«Questo significa che devo scusarmi un'altra volta.»
«Credo proprio di sì.»
«Mi dispiace. Lo difendevi con tanta passione, ma avrei dovuto capire che si trattava solo di amicizia. Siamo più simili di quanto pensassi» osservò.
Ashley quasi sospirò per il sollievo.
«Vado a chiudere la porta a chiave» annunciò Jake.
«D'accordo.» Non si mosse, ma lasciò cadere il reggiseno che teneva in mano.
Poco dopo, quando furono di nuovo a letto, Ashley gli raccontò della sua amicizia con Stuart, di quanto fosse affezionata ai suoi genitori, di quando le piaceva un suo amico e lui aveva fatto in modo che lo confessasse al telefono.
«E come è andata a finire con quel tizio?»
«Che siamo usciti insieme per un paio d'anni. È stato lui il mio grande amore del liceo.»
«Poi?»
«Poi ho scoperto che era il più stupido e insopportabile cretino che avessi mai conosciuto.»
«Me incluso?»
Ashley sorrise. «A dire la verità, un po' me lo ricordi. Voleva sposarmi appena finita la scuola. Saremmo andati a vivere da Nick e lui avrebbe frequentato il college mentre io lavoravo per mantenerlo. Pensava che il disegno fosse solo un passatempo, non un lavoro. Era convinto che avrei dovuto toccare il cielo con un dito solo per il fatto che avevo un ragazzo come lui. Per fortuna, in quei momenti di pazzia, quando ero pronta a fare tutto quello che mi chiedeva, c'era Stuart. Fu Stuart a dirmi che ero una stupida, che non mi stimavo abbastanza, che abbandonare il disegno sarebbe stata una follia. Ho seguito il suo consiglio e poi ho deciso di entrare nella polizia. Credo che in parte sia dipeso anche da mio padre, forse ho pensato che mi sarei sentita più vicina a lui, in un certo senso. Desidero ancora finire l'accademia, ma non potevo rifiutare il posto alla scientifica.»
«Sono d'accordo» convenne Jake. «È stata dura, per un vecchio veterano come me, vedere un talento simile in una novellina.»
«Novellina?»
«Avresti dovuto rispondere che non sono vecchio.»
«Quanti anni hai?»
«Quasi trentasei. Tredici passati nella polizia.»
«Hai sempre saputo che volevi fare il poliziotto?»
«No. Sarei dovuto diventare un avvocato. Per certi versi ero simile a quell'idiota che frequentavi.»
«Già, sei un bel maschilista.»
«Per niente. Non più. Tranne...»
«Tranne quando si tratta di me?»
Jake rimase a lungo in silenzio, prima di rispondere. «C'è qualcosa in te che mi ricorda Nancy.» Esitò. «Ha deciso di agire da sola e per questo è morta. Ha commesso un errore.»
«Anche gli uomini commettono errori. Anche tu puoi sbagliare.»
Sorrise. «Sì, è vero.»
«Ma continui lo stesso a fare il tuo lavoro.»
«La sai una cosa?» Si voltò verso di lei. «I poliziotti, che siano uomini o donne, possono essere degli imbecilli. Sono esseri umani. Ma quasi tutti sono persone a posto. Ne ho incontrato uno quando ero ragazzo e mi ha cambiato la vita. È questo che significa per me il mio lavoro. Poter cambiare le cose. Non ci riusciamo sempre, ma non smettiamo di provarci.» Rimase in silenzio per qualche secondo. «È vero, sono ossessionato dal caso Bordon. E so che la nostra Jane Doe c'entra qualcosa. So che da qualche parte c'è la tessera mancante del puzzle. Ma non riesco a riconoscerla. Forse è per questo che ti capisco quando parli di Stuart. Cercherò di aiutarti, come posso.»
Gli accarezzò il mento con un dito. «Grazie.»
Le afferrò il dito. «Non è che sei qui solo perché sono un bravo investigatore e posso scoprire qualcosa?»
«Sono qui perché ti ritengo bravo a fare altre cose.» Sorrise.
«Solo per il mio corpo.»
«Cervello o corpo. A te la scelta. E io? Sono qui perché sono brava a disegnare? O perché sono a portata di mano e ho un corpo passabile?»
«Perché sei a portata di mano e hai un corpo fantastico. E per i capelli. Vado matto per i capelli rossi.»
Lei scoppiò a ridere e lui la attirò più vicina.
Mentre le accarezzava la schiena, un pensiero attraversò la mente di Ashley.
O sono qui perché ti ricordo Nancy?
Ma tenne per sé la domanda.
E quando lui iniziò a baciarla non ebbe più voglia di pensare.
La sveglia non era ancora suonata. Ashley era sicura che fosse notte fonda, ma i colpi alla porta di Jake avrebbero svegliato un morto.
«Ma chi diavolo...?» borbottò Jake. Si alzò in piedi di scatto e si infilò i calzoncini.
«Che cosa...?»
«E Marty» le sussurrò in tono sbrigativo prima di uscire dalla cabina.
Ashley si alzò a sedere, ancora mezza addormentata. Sentì Jake aprire la porta e Marty che entrava di corsa.
«Ce l'abbiamo!» esclamò Marty.
«Cosa?»
«I giornali sono appena usciti e sappiamo già chi era Cenerentola.»
Nathan Fresia era all'ospedale, seduto con la testa fra le mani. Totalmente sconvolto dal dolore.
Anche Lucy era stata ricoverata. Aveva la pressione troppo alta e rischiava un arresto cardiaco. Le avevano somministrato un calmante e adesso dormiva in un altro reparto. Avrebbe voluto restare con lei, ma lo aveva pregato di non lasciare solo Stuart.
«Signor Fresia?»
Alzò la testa. Il dottor Ontkean, il neurologo che si occupava di Stuart, era di fronte a lui. Doveva avere una espressione davvero affranta, perché il dottore si inginocchiò per parlargli.
«Signor Fresia, suo figlio è ancora stabile, ma è una roccia, e questo è molto importante. Vuole vivere.»
Nathan annuì.
«Il cardiologo mi ha assicurato che anche sua moglie sta bene. Deve solo riposare un po'.»
«Grazie.» Gli sembrò che a pronunciare quella parola fosse stata la voce di un altro.
Il dottore si schiarì la gola. «Però lei deve aiutarmi. Abbiamo quasi perso suo figlio perché una presa si è staccata dal muro. Sono venute a trovarlo troppe persone negli ultimi giorni. Per fortuna è riuscito a respirare così a lungo anche senza l'aiuto della macchina. Non sappiamo neppure per quanto tempo. È un buon segno, ma è anche un avvertimento. Questo è il reparto di terapia intensiva, non possiamo permetterci di avere processioni di persone che vanno e vengono, capisce?»
«Certo.»
«Dovrebbe dormire un po' anche lei.»
«Non posso, non voglio lasciarlo solo.»
Il dottore annuì. Forse anche lui aveva un figlio. «Cerchi di riposare qui, almeno. Passo più tardi per un controllo.» Uscì.
Cullato dal suono del respiratore, Nathan chiuse gli occhi.
«Jake, dobbiamo...» Marty si interruppe di colpo. «Ah, non sei solo. Scusami.»
Lui lo guardò senza capire. Poi vide il reggiseno di Ashley sul pavimento.
«Nessun problema. Dimmi di Cenerentola. Chi è?»
«Qualcuno ha chiamato la centrale questa mattina presto, appena sono usciti i giornali» iniziò Martin.
Prima che potesse continuare, si sentì un urlo improvviso provenire dal locale di Nick.
Tutti e due si precipitarono fuori.
Len Green aveva lasciato l'auto piuttosto distante dal ristorante di Nick e vi si stava avviando a piedi. Voleva fare il giro più lungo e raggiungere il retro dell'edificio. Camminava in silenzio. Era sicuro che sarebbe riuscito ad arrivare alla porta di Ashley senza che nessuno lo vedesse. C'erano alberi e cespugli dietro i quali nascondersi e il sole non era ancora sorto.
Ma si fermò di colpo in mezzo al sentiero, quando un urlo da far gelare il sangue squarciò l'incanto dell'alba.
Il cellulare di Ashley stava squillando. Lo sentì, ma non riusciva a ricordare dove avesse lasciato la borsa. I suoi vestiti erano rimasti nella zona giorno e Marty e Jake erano usciti di corsa, allarmati dal grido.
Si infilò in fretta i jeans e la maglietta, senza perdere tempo con la biancheria, e andò sul pontile a piedi nudi. Vide che Jake, Marty, Nick e Sharon erano sotto il portico.
Li raggiunse di corsa.
Sandy emerse dalla sua barca ancora assonnato.
«Che cosa è successo?» chiese Ashley quando fu con loro.
Si sentì addosso gli occhi di tutti. Tranne quelli di Jake, che in quel momento fissava Sharon.
«Ashley!» esclamò Sharon.
«Sei stata tu a urlare? Perché?» chiese lei.
«Era preoccupata» disse Nick, in tono inespressivo.
«Preoccupata?»
«Ho visto il tuo disegno sul giornale» spiegò Sharon.
«Ho riconosciuto subito la donna. Sono andata in camera tua e non c'eri. Allora ho urlato. Ero spaventata.»
«Perché eri così spaventata per Ashley?» chiese Jake.
«Non sapevamo neppure che avessi accettato l'incarico» rispose Nick. Fissava la nipote e Ashley si sentì morire. Era vero, non lo aveva messo al corrente. Nick l'aveva cresciuta, le era sempre stato vicino, e lei non gli aveva detto della decisione più importante di tutta la sua vita.
«Mi dispiace.»
«C'è il nome di Ashley sotto il disegno?» chiese Marty stupito.
Anche lui la fissava. Ashley si domandò se per caso avesse scritto in fronte: Sì, vado a letto con Jake Dilessio.
«Riconoscerei ovunque un disegno di Ashley» disse Nick, in tono orgoglioso ma di rimprovero al tempo stesso.
«Anch'io» aggiunse Sharon.
«Nick, è successo solo ieri» si giustificò Ashley.
«Chi è quella donna?» li interruppe Jake.
Sharon si voltò a guardarlo. «Si chiama... si chiamava Cassie Sewell.»
«Come mai la conoscevi?»
«Ha lavorato per un breve periodo per un'agenzia immobiliare. Si era trasferita qui da alcuni mesi. Prima viveva a nord. Ci siamo incontrate perché ci occupavamo entrambe della vendita di una proprietà nelle Redlands.»
«Perché nessuno ha denunciato la scomparsa?» chiese Marty.
«Da quanto ne so...» Prese un gran respiro, poi continuò. «Avevamo quasi concluso la trattativa, ma poi è saltato tutto perché i venditori erano convinti di non essere stati rappresentati in modo adeguato. Quando ho cercato di mettermi in contatto con lei, un suo collega, Fred Hampton, mi ha detto che si era licenziata. Era passata in ufficio e aveva detto di voler cambiare vita; a sentire il collega, sembrava che fosse innamorata. Non so altro. Non è che mi stesse molto simpatica, aveva mandato all'aria un contratto, ma quando ho visto il suo viso... E il disegno di Ashley...»
«Per quale agenzia lavorava?» chiese Jake.
«Algemon e Palacio» rispose Sharon.
Jake si rivolse a Marty. «Io vado direttamente là. Tu vai in ufficio e scopri che cosa sanno i colleghi del turno di notte.»
«D'accordo» disse Marty.
Jake salutò e tornò alla barca. Nick e Sharon fissavano Ashley. Lei restò in attesa, pronta a sentire i rimproveri dello zio.
Ma Nick non disse una parola. Si voltò e rientrò in casa.
«Va tutto bene, cara?» chiese Sharon.
«No, direi di no.» Ashley scosse la testa e seguì lo zio.
Lo trovò dietro al bancone, che si versava una tazza di caffè. Fece finta di non averla vista arrivare.
«Nick, ti prego, scusami.»
«Hai venticinque anni. Se vuoi tenere per te la tua vita lavorativa, e quella amorosa, sono solo fatti tuoi.»
«Nick, per favore.»
Girò dietro al bancone e lo abbracciò, come aveva sempre fatto fin da bambina. «Mi dispiace tanto, davvero. Non sono riuscita a parlarti ieri sera perché eri già uscito per andare da Stuart. E poi, quando sono tornata...»
«Già, quando sei tornata...»
Si staccò da lei.
Seguì un minuto di silenzio.
«Credevo che Jake Dilessio fosse un tuo amico» mormorò Ashley.
«Prima di scoprire che ha una relazione con mia nipote.»
Lei restò immobile. «L'hai appena detto, ho venticinque anni, e non c'è niente di strano se ho una vita...»
«Sessuale?» la interruppe in tono ostile. La guardò dritta negli occhi. «Sì, certo. Non sono un ingenuo. Però mi piacerebbe pensare di essere un po' più importante per te di un poliziotto che hai appena conosciuto.»
«Nick, lo so che avrei dovuto parlartene. Ma è successo tutto così in fretta.»
«Ti va di parlarmene adesso?»
Ashley annuì e si sedette su uno sgabello. «Mi daresti un caffè?»
«Certo.» Le mise davanti una tazza.
«Nick, è stato fantastico.»
«Per favore, non ho nessuna voglia di sentire i dettagli della notte con Dilessio.»
«Parlavo del lavoro. Ho accettato, come mi avevi consigliato. E prima ancora di essere assunta mi sono ritrovata all'obitorio a fare l'identikit. È successo tutto così in fretta.»
«Anche con Dilessio?»
«Sì.»
«Non lo conosci neanche.»
«Credevo che fosse un tuo amico. Che ti piacesse.»
«Questo è vero, ma tu non lo conosci. È pieno di ossessioni. È una persona tormentata, difficile. Vive solo per il lavoro. Io lo stimo, ma non sono sicuro che sia l'uomo giusto per te. Girano dei pettegolezzi, su di lui...»
«Lo so.»
«Ashley...»
Nick smise di parlare. Era entrata Sharon. Era ferma sulla soglia.
«Scusatemi. Non volevo interrompere i vostri discorsi, solo che... dovrei vestirmi per andare al lavoro.»
«Sharon, non essere ridicola» borbottò Ashley. «Passa pure.»
Sharon guardò Nick e sorrise. Passò veloce.
«Signorina» iniziò Nick. Posò la tazza sul bancone e si sporse in avanti. «Non voglio vederti soffrire, non voglio vederti coinvolta da qualcuno che è sicuramente un uomo in gamba, ma che forse, quando si tratta di donne, non è così cristallino. Io...»
Smise di nuovo di parlare. Ashley si voltò e vide Sandy sulla porta. Era a piedi nudi e aveva in mano la borsa di Ashley.
«Scusate, Dilessio mi ha chiesto di darti questa.» Sollevò la borsa.
«Portala qui» mormorò Nick con un sospiro.
Entrò anche Sandy. «Hai fatto il caffè, Nick?»
Nick e Ashley si scambiarono un'occhiata.
«Mi sa che devo chiederti un appuntamento e portarti fuori a cena il più lontano possibile da qui, per riuscire a parlare, che ne dici?» chiese Nick.
Lei sorrise, si sporse sopra il bancone e lo baciò su una guancia.
«Dico che mi sembra un'ottima idea.»
Il cellulare squillò. Nella confusione, aveva dimenticato che qualcuno aveva cercato di chiamarla. Forse era la stessa persona di prima. Sandy si sedette sullo sgabello accanto al suo mentre lei frugava nella borsa alla ricerca del telefono.
«Ashley? Ashley Montague?»
«Sì?»
«Sono io. David Wharton. Ci siamo incontrati all'ospedale. Ho bisogno di vederti. Qualcuno ha cercato di uccidere Stuart.»
15
Ashley incontrò David al Caffè della Stampa, in Coconut Grove. Aveva scelto lui il posto. Erano seduti fuori, all'aperto, sul marciapiede, ben in vista e di certo non soli.
Quando era tornata in camera, Ashley aveva passato una ventina di minuti al telefono per cercare di contattare il signor Fresia all'ospedale. Un volontario le aveva riferito le condizioni di Stuart leggendole dalla cartella clinica. La situazione sembrava stazionaria. L'infermiera del reparto non aveva voluto metterla in comunicazione con la stanza. Allora aveva cercato in una vecchia rubrica il numero di Nathan Fresia, che per fortuna era rimasto lo stesso.
Parlare con Nathan però non le era stato di nessun aiuto. Era esausto e più nervoso del solito. Aveva insistito perché lei non andasse più in ospedale. C'erano state troppe persone, aveva detto, e nella confusione qualcuno doveva aver staccato una spina dalla presa. Le conseguenze potevano essere mortali.
Ashley non riusciva a credere alle sue orecchie. Era stata proprio lei l'ultima a lasciare la stanza. E avrebbe giurato che il respiratore funzionava alla perfezione. Aveva provato a spiegarlo a Nathan, ma lui le aveva risposto in tono brusco che anche sua moglie era ricoverata in ospedale e che, lo credesse o no, le cose erano andate così. Poi si era scusato, ma aveva ripetuto che avevano bisogno di restare soli, almeno per qualche giorno.
Ashley era sconvolta.
David Wharton la salutò con cordialità poi si sedette di fronte a lei.
Esordì subito: «Si dice in giro che ieri sera una di voi tre abbia staccato la spina».
«Non è vero!» ribatté Ashley indignata. «Ma tu sai qualcosa, e faresti bene a dirmelo subito.»
«Calma, sono io che ti ho cercata. Ma se non la smetti di comportarti come un poliziotto me ne vado.»
Ashley si appoggiò alla sedia e sospirò. Lo guardò negli occhi. «Noi non abbiamo staccato nessuna spina. Allora cosa è successo?»
«E come faccio a saperlo?»
«A quanto pare eri lì.»
«Sì. Ma non nella sua stanza. Credi che mi lascino entrare?» Scosse la testa. «Una cosa però posso dirtela: Lucy Fresia non è pazza, non ha perso la testa e non ha mai desiderato, neppure nei più reconditi recessi del suo inconscio, di far morire il figlio. Io non ero nella stanza, ma ero lì vicino, potevo controllare i corridoi e tutto quello che succedeva. Solo i genitori e il personale dell'ospedale sono entrati e usciti dalla stanza.»
«Come puoi esserne così sicuro? In tutta la notte non ti sei mai allontanato, neanche per un caffè?»
Sospirò e la guardò. Dalla sua espressione era chiaro che non aveva nessuna intenzione di ammettere che potesse essergli sfuggito qualcosa. «Quando mi impegno in un lavoro non tralascio nulla.»
«Allora pensi che qualcuno dell'ospedale abbia provato a uccidere Stuart?»
«Non credo proprio.»
«Ma è quello che hai appena detto.»
«Forse ho formulato male la frase. Avrei dovuto dire che solo individui vestiti come il personale dell'ospedale sono entrati e usciti da quella camera.»
Wharton vide la cameriera avvicinarsi per prendere le ordinazioni e smise di parlare. Ashley aveva pensato di prendere solo un caffè, ma si accorse di colpo di avere una gran fame. Ordinò una colazione abbondante. Lui chiese un'aranciata e pane tostato. Sembrava che il suo appetito lo divertisse.
«Mangi sempre così tanto?»
«Solo quando ho fame.» La cameriera si allontanò. Ashley si sporse in avanti, sopra il tavolo. «In altre parole, secondo te qualcuno vestito come un dottore o un'infermiera si è introdotto nella stanza di Stuart e ha staccato la spina.»
«Sì, è quello che penso. E non dirmi che ho visto troppi film.»
«Mai pensata una cosa simile.» Gli credeva. Senza dubbio. Così come era sicura di essere stata seguita nel parcheggio dell'ospedale da qualcuno vestito come un dottore. «Ti credo, e la cosa mi spaventa. Qualcuno è entrato e ha staccato la spina. Ma perché Lucy non se ne è accorta?»
«Forse si era addormentata.»
«Avrebbe potuto svegliarsi.»
«Non è detto. Dev'essere esausta, sarà crollata. E chiunque sia stato è uno bravo, un professionista. Nessuno avrebbe potuto notarlo.»
Ashley rimase in silenzio per un momento. Sembrava tutto molto inverosimile, ma anche la polizia aveva ritenuto inverosimile il fatto che lei fosse stata seguita nel garage dell'ospedale.
«Se quello che affermi è vero, Stuart è in pericolo anche adesso, mentre noi parliamo.»
«Lo so. Ma è giorno, c'è più gente in giro. E c'è suo padre con lui. Pensavo che anche tu potresti tornare all'ospedale.»
Ashley fece cenno di no con la testa. «Nathan Fresia è convinto che io, Karen o Jan abbiamo staccato la spina senza volere.»
«Forse, se gli parli...»
«Forse, ma prima dobbiamo scoprire la verità.» Si piegò verso di lui. «L'altra sera mi hai detto che sapevi qualcosa, che avevi in mano qualcosa. Di che si tratta?»
Lui esitò. «Devi promettermi che mi aiuterai a provare quello che ti dirò, prima di comunicarlo in modo ufficiale alla polizia.»
«Ma se hai qualcosa di concreto...»
«Non so che cos'ho. Ho già riferito alla polizia tutte le informazioni di cui disponevo sulle ricerche di Stuart.» Esitò. «Hanno controllato anche qualche pezzo grosso su cui Stuart aveva raccolto del materiale, compresa una donna membro del Congresso, ma sono risultati tutti puliti. Non credo proprio che la polizia mi ascolterà ancora.» La guardò. «È vero, sto cercando lo spunto per un buon articolo. Non ho intenzione di nasconderlo. Ma quello che dico è la verità. Sono davvero un amico di Stuart. Da quando è stato ferito non mi sono mosso dall'ospedale.»
«Non so cosa posso fare» disse Ashley. Terminò di bere il caffè.
«Ho un indirizzo. Potresti andare a controllarlo. Possiamo andarci insieme.»
«Un indirizzo? Di cosa? E perché non lo hai dato alla polizia?»
«Perché l'ho trovato da poco, mentre cercavo fra le cose di Stuart.»
«E dove dovremmo andare?»
«Lontano, a sudovest. In campagna.»
Ashley lo fissò. Cosa poteva esserci di male nell'andare con lui a fare un giro in macchina? Aveva ragione. Forse Stuart era in pericolo.
«Anch'io non so che cosa fare» sussurrò Wharton. Allungò una mano e le toccò un braccio. «Lo so, non fai più parte della polizia. Ma sono sicuro che puoi fare qualcosa, anche solo trovare qualcuno che ti stia a sentire.»
Lei esitò. A modo suo, Jake la ascoltava. Forse lo faceva solo perché si sentiva obbligato, visto che andavano a letto insieme.
Non le piaceva l'idea di obbligare qualcuno, ma allo stesso tempo sarebbe stato da stupidi rischiare la vita di Stuart per il proprio orgoglio.
Dilessio non avrebbe potuto parlarle quel giorno. La vittima aveva finalmente un nome e lui sarebbe stato molto occupato, come un segugio su una traccia.
Però aveva bisogno di lui.
«Aspettami un attimo» disse a David, poi si alzò.
Stava diventando paranoica, vedeva ovunque gente che la spiava. Girò l'angolo e chiamò la scientifica. Chiese di Mandy Nightingale. La lasciarono in attesa a lungo, poi Mandy arrivò al telefono. Si congratulò subito per il successo dell'identikit e Ashley riuscì a malapena a parlare, ma alla fine ottenne il numero del cellulare di Jake.
Lui rispose solo dopo molti squilli, in tono brusco.
«Dilessio.» Sembrava scocciato.
«Jake, sono Ashley.»
«Ashley.» Per un attimo sembrò che non riuscisse a metterla a fuoco. «Sì, Ashley, cosa c'è? Sono molto occupato.»
«Lo so, lo so, sarò breve. So di chiedere molto, ma Stuart è stato sul punto di morire ieri notte. Qualcuno ha staccato il respiratore. Quelli dell'ospedale dicono che ha ricevuto troppe visite e che dev'essere stata colpa nostra, ma io so che non è andata così. Sono convinta che Stuart sia in serio pericolo. C'è un modo, anche pagando di tasca mia, per mandare qualcuno di guardia alla stanza? Magari degli agenti fuori servizio? Per controllare che i medici e le infermiere che entrano facciano davvero parte del personale dell'ospedale.»
Seguì un lungo silenzio. «Ashley, sai benissimo che sono nel bel mezzo di un'indagine su un omicidio.»
«Lo so. Ma non sono una stupida e non mi immagino le cose. Cerco solo di impedire un altro omicidio. Per favore. Ti ricordi quello che ci siamo detti ieri? Ti prego, non so a chi altro rivolgermi. So benissimo che sei occupato e non ti disturberei se non fossi disperata. Aiutami.»
«Ci proverò.»
Ashley riagganciò prima che lui potesse aggiungere altro. Si mordicchiò un labbro e fissò il telefono. Non sapeva cos'altro fare.
Stava per tornare al tavolo quando il telefono squillò di nuovo.
Non era Jake. Era Marty. Voleva i particolari, voleva sentire la storia dall'inizio. Gli raccontò tutto e alla fine lui le promise che avrebbe organizzato tre turni di sorveglianza e che avrebbe parlato di persona con Carnegie e con Nathan Fresia.
«Ashley, i poliziotti fuori servizio chiederanno una tariffa più bassa a una collega, ma vorranno comunque essere pagati.»
«Lo so.» Esitò. «Non ti preoccupare.» Marty rimase in silenzio, così lei proseguì. «Mi dispiace darti questa seccatura.»
«No, non è questo il punto. Vorrei poterlo fare d'ufficio, ma non c'è modo di richiedere la sorveglianza della polizia se il personale dell'ospedale è convinto che si tratti di un visitatore sbadato. Possiamo procedere solo a livello privato. Se sei convinta che ci sia un pericolo...»
«So cosa vuoi dirmi, Marty. La mia è solo una sensazione.»
Lo sentì sbuffare, anche se aveva cercato di camuffare la sua reazione. Lo ringraziò e chiuse la comunicazione. I Fresia non erano certo miliardari, ma non stavano male dal punto di vista economico. Se avesse spiegato loro la situazione, sarebbero stati pronti a pagare. E poi lei aveva qualcosa da parte e presto avrebbe guadagnato bene, quindi avrebbe potuto contribuire. Non ci sarebbero stati problemi.
Tornò al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia. Era stanca morta.
«Dei poliziotti fuori servizio staranno di guardia davanti alla stanza di Stuart» annunciò.
David la guardò con ammirazione, come se avesse appena compiuto un miracolo.
«Li hai avvertiti di controllare il personale dell'ospedale?» chiese preoccupato.
«Sì.»
Wharton si appoggiò all'indietro e sorrise. «Allora credo proprio che sia il caso di fare quel viaggetto. Guidi tu o guido io? La mia macchina è nel posteggio del centro commerciale, dall'altro lato della strada.»
«Io ho posteggiato nel parcheggio a pagamento. Andiamo con la mia.»
Rona Palacio era una delle tante persone che avevano chiamato in centrale non appena avevano visto l'identikit. La donna sul giornale era una sua ex impiegata. Quando Jake arrivò, era disponibile a parlare e sconvolta per ciò che era successo. Ma priva di risposte.
«Non passava molto tempo in ufficio» esordì dopo essersi seduta alla scrivania, mentre giocherellava con la gommina della matita. «La prima volta che l'ho vista l'ho trovata una persona simpatica, intelligente, allegra, con una gran voglia di lavorare. Era perfetta per far parte della nostra squadra. Non che sia determinante essere belli per vendere immobili - i nostri clienti vogliono persone efficienti e preparate - ma il fatto che fosse anche carina e piena di energia non guastava.»
Jake pensò che anche Rona Palacio era una bella donna. Di mezza età, messa in piega perfetta, snella e ben vestita. Era evidente che l'apparenza era molto importante per lei.
«Credo che non avesse famiglia» continuò Rona, «nessun parente stretto, o almeno questo è quello che ci ha detto quando ha spiegato le ragioni del suo trasferimento. Ha detto di aver lavorato nella zona centrale dello Stato e le referenze che ci ha dato sono risultate vere. Aveva scelto di venire a Miami perché aveva degli amici qui e perché Miami è il posto in cui tutti vorrebbero vivere. Poi però, all'incirca tre settimane dopo, quando già cominciava a inserirsi nel lavoro, mi ha chiamato per annunciarmi che il mondo intorno a lei era cambiato e che voleva fare altro nella vita. Naturalmente ho provato a farla ragionare. Ma non si è aperta con me. Non ho mai conosciuto i suoi amici, e non credo che qualcuno degli altri colleghi li abbia mai incontrati. Qui c'è l'ultimo indirizzo che ci aveva dato e una lista di persone che può contattare. Ma non ho altro. Vorrei poterle essere più utile. Comunque ci tengo a dirle che, se è vero che non ha parenti, allora la società si occuperà di provvedere per il funerale. Non che sia nostro dovere, però mi sembra la cosa giusta da fare.»
«Sta a lei decidere, signora Palacio» rispose Jake. «Di quale zona si occupava?»
«Le mostro la sua scrivania e il suo computer. Ora ovviamente c'è un'altra persona.»
«Certo. Ma qualsiasi cosa può essere di aiuto.»
Così Jake si ritrovò alla scrivania che era stata di Cassie Sewell, con un indirizzo e una lista di nomi da contattare. Una segretaria lo aiutò a trovare gli immobili di cui si era occupata la vittima. Con tutti quei nomi, le indagini e gli interrogatori avrebbero potuto durare all'infinito. Ma in fondo era proprio quello in cui avevano sperato.
Jake trascorse quasi l'intera mattinata a parlare con i colleghi di Cassie Sewell. Non era una grande agenzia ed erano tutti più che disponibili a collaborare, però non avevano molto da aggiungere rispetto a quello che gli aveva già detto Rona Palacio. Cassie era molto graziosa, cordiale ma solitaria, a modo suo. Prima di andarsene aveva parlato solo con due colleghi e anche a loro aveva ripetuto quello che aveva detto a Rona: che voleva cambiare vita e che si licenziava. Nessuno l'aveva mai vista con amici.
Franklin, dell'FBI, telefonò nel bel mezzo di uno dei colloqui.
Jake dovette riconoscere che Franklin aveva svolto un gran lavoro: aveva consultato ogni possibile archivio, aveva attivato poliziotti in tutto lo Stato e aveva raccolto una quantità enorme di informazioni sulla vittima. Aveva scoperto che Cassie aveva lavorato nella contea di Orange e aveva contattato i suoi ex colleghi. Gli avevano riferito che era una ragazza gentile e seria, molto religiosa, al punto da prendere in considerazione l'idea di diventare suora. Quando si era licenziata aveva detto che andava a Miami perché lì c'erano alcune persone che avrebbero potuto essere molto importanti per la sua vita, e che forse in un gruppo religioso avrebbe incontrato l'uomo giusto. Franklin aveva già passato al setaccio le parrocchie della zona, ma senza risultato.
«Secondo te è finita in qualche gruppo che non si fermava al cattolicesimo?» chiese Franklin. «Sembra la conclusione più logica, a giudicare dalle descrizioni raccolte. E poi, visto che credi che questo caso abbia a che fare con gli omicidi di cinque anni fa...»
«Non mi sembri convinto.»
«Ora che conosciamo l'identità della donna, scopriremo qualcosa in più.»
«Devo ammetterlo, Franklin. Sono stupito di quante informazioni hai ottenuto in così poco tempo.»
«Jake, sei un poliziotto in gamba, e so benissimo che mi consideri un deficiente. Non sarò bravo a trattare con la gente, ma mi sono specializzato in Criminologia prima ancora di entrare a Quantico. E non è proprio una passeggiata, te l'assicuro.» Dopo una pausa, aggiunse: «Non mi piace passare per una testa di cazzo».
«Non lo sei.» Jake si chiese se avesse mai usato anche quell'espressione per riferirsi a Franklin.
«Certo che non lo sono. E le ricerche d'archivio sono il mio forte. Ma l'istinto, quello è la tua specialità. Quindi se dovessi avere qualche intuizione, fammelo sapere e vedrò che cosa riesco a cavarne.»
«D'accordo. Ma per ora non ho niente da farti sapere» rispose Jake. Mentiva. C'era qualcosa, qualcosa che gli sfuggiva. Qualcosa che era proprio di fronte a lui. Fumo e specchi.
«C'è altro?» chiese Jake, tornato alla realtà.
«Sì, volevo essere sicuro che sapessi che Peter Bordon verrà rilasciato sulla parola, all'inizio di settimana prossima.»
«Sapevo che sarebbe uscito. Grazie.»
Jake continuò i colloqui. Poi telefonò alla scientifica e chiese a Skip Conrad, un vecchio amico, di fargli un piacere.
«Non riuscirò ad andarci se non stasera tardi» rispose Conrad. «E quando avrò finito il posto sarà uno schifo. Lo sai. Vuoi davvero che lo faccia?»
«Sì. E non mi importa del casino. Ti devo un favore. Già che ci sono te ne chiedo un altro: non parlarne con nessuno. Se non ci sono io, fatti dare le chiavi da Nick Montague.»
Skip restò in silenzio per un attimo. «Sei sicuro che non sia stato Nick a entrare?»
«Non sono sicuro di niente.»
«E Brian Lassiter?»
«Non credo, ma non posso escludere neanche lui.»
Si salutarono. Skip avrebbe trovato le impronte di Brian. Era stato sulla barca, completamente ubriaco, e aveva toccato tutto. Trovare le impronte di Brian non avrebbe portato a nulla. Con un gesto stanco, Jake si strofinò le tempie.
Il telefonò squillò di nuovo. Era Marty.
«Sono all'ultimo domicilio conosciuto di Cassie Sewell. Adesso ci vive una famiglia, ma sono disposti a farci dare un'occhiata.»
«Arrivo.»
Jake raccolse le liste che aveva ottenuto e uscì. In macchina sbirciò gli indirizzi.
Erano tutti nella zona delle Glades.
Ed erano tutti vicini al posto dove cinque anni prima Nancy Lassiter era finita nel canale.
Più di una volta, mentre guidava, Ashley si chiese se era del tutto sana di mente. Non conosceva l'uomo seduto accanto a lei e non sapeva neppure dove stavano andando e perché. David sembrava una persona normale, abbastanza bello, sguardo acuto e un sorriso caloroso. Anche quel giorno era in jeans e maglietta.
«Penso che ci convenga prendere l'autostrada» annunciò David.
«Forse hai ragione» rispose Ashley. «Non mi hai ancora spiegato dove hai trovato l'indirizzo e perché ci hai messo tanto.»
«Stuart ha lasciato delle riviste a casa mia. In tutte c'erano articoli sulle Everglades. Le ho sfogliate per cercare di capire cosa lo interessasse ed è saltato fuori un pezzo di carta. C'erano scritti alcuni nomi, che avevo già dato alla polizia. Ma quando l'ho girato, ho visto un indirizzo. Ci ho messo un po' a leggerlo. L'aveva scritto a matita, sembrava solo uno scarabocchio.»
«Sei sicuro che stiamo andando nel posto giusto?»
«Certo» disse. «O almeno penso.» Si voltò verso di lei. «Non credi che sarebbe una buona idea telefonare a Nathan Fresia? Quando arriveranno i poliziotti di guardia si chiederà perché sono lì.»
«Hai ragione. Mi passi il telefono?»
Nathan questa volta sembrò un po' più cordiale, ma sempre sulle sue. Ashley arrivò subito al punto e gli spiegò che aveva ritenuto opportuno predisporre un servizio di vigilanza a pagamento, dato che era più che certa di non aver staccato nessuna spina. Nathan le disse che il primo poliziotto era già arrivato e che aveva pensato che fosse stato mandato da Carnegie. Ringraziò Ashley e le disse che se voleva poteva andare all'ospedale, ma da sola.
«Il primo poliziotto è già lì» annunciò a David.
«Conosci proprio le persone giuste.»
Ashley decise di chiamare Jan e Karen, per avvisarle. Chiamò la scuola di Karen e le risposero che li aveva avvertiti che quel giorno non sarebbe andata a lavorare perché era malata. Provò a casa e sul cellulare ma non ottenne risposta. Ricordò che la sera precedente era stata accompagnata a casa da Len. Lasciò un messaggio sulla segreteria e provò a chiamare Len in ufficio. Le dissero che quel giorno non era andato al distretto.
«Che cosa succede?» chiese David.
«Sta sbocciando un amore, credo.»
Poi chiamò Jan. Anche lei non rispose e Ashley lasciò un altro messaggio.
«Dobbiamo uscire qui» disse David quando furono in prossimità di uno svincolo.
«Ci sei già stato?»
«Diciamo che conosco la zona.»
«Ma non sai dove stiamo andando?»
«No.»
David cercò di sgranchirsi le gambe e nel farlo urtò con il ginocchio lo sportello dello scomparto sotto il cruscotto, che si aprì. C'erano la pistola e il distintivo di Ashley. Non aveva ancora trovato il tempo per restituirli.
«Fantastico. Siamo armati e pericolosi» mormorò David.
«Chiudi subito.»
«E scommetto che sai anche come usarla.»
«Sì.»
David sorrise e richiuse lo sportello. Qualcosa nella sua espressione mise Ashley a disagio. Si disse che doveva ricordarsi di mettere la pistola in borsa e di tenersela vicina fino al momento di restituirla.
«Sai sparare?» chiese a David.
«Sono un tiratore scelto.» Fissava la strada davanti a sé e si strinse nelle spalle. «Accademia militare.» Le fece cenno di svoltare a destra.
«Di là. Andiamo verso ovest e poi giriamo a sud.»
Ashley seguì il suo consiglio, ma si ritrovarono la strada sbarrata da un canale e dovette fare inversione.
«Indicazioni perfette» borbottò.
«È colpa mia se ci sono canali ovunque?»
Sbagliarono ancora strada, ma alla fine arrivarono all'indirizzo che cercavano. O perlomeno, a giudicare dai numeri, doveva essere lì da qualche parte tra i campi.
Ashley fermò l'auto sul ciglio della strada sterrata.
Spense il motore e guardarono fuori dal finestrino.
«È una fattoria enorme» disse Ashley.
«Non riesco nemmeno a vedere la casa» mormorò David.
«Sì, ma è laggiù. Guarda, c'è qualcos'altro. Non è un granaio, forse un silo.»
«Un silo? Quello non è un silo.»
«Allora cos'è?»
«Non un silo. Coltivano fragole.»
«E allora a cosa serve?»
David fissò la costruzione e scrollò le spalle. Quella che avevano di fronte sembrava una torre rotonda, unita a una sorta di magazzino coperto o di deposito.
«Forse c'è una finestra da cui l'agricoltore segue la crescita delle fragole» borbottò David, poco convinto. «Non ne ho idea. Vorrei poter entrare. Ci proviamo?»
«È proibito girovagare nelle proprietà private, David.»
La fissò e accennò un sorriso. «Io sono un giornalista. I giornalisti di solito se ne infischiano delle regole. E tu non sei più un poliziotto.»
«David, non si può.»
Fece finta di non averla sentita. «Più in là, vicino alla casa. Sembra che ci sia un orto. La casa è enorme. Devono coltivare un sacco di roba da mangiare.»
«È questo che fanno di solito gli agricoltori. Coltivano un sacco di roba da mangiare. È il loro lavoro» rispose lei, innervosita.
«Guarda, è quasi tutto terreno coltivato, ma laggiù in fondo c'è una zona lasciata a bosco.»
«Sorprendente» disse Ashley ironica.
La fissò. «Questo posto sembra davvero una fattoria. Sono riusciti a farla sembrare una fattoria.»
«È una fattoria. Caso risolto, i proprietari devono essere arrestati immediatamente» rispose in tono sarcastico. «David, ragiona. Abbiamo trovato una fattoria e non sappiamo neppure se l'indirizzo sia questo. Adesso cosa possiamo fare, che sia legale e che abbia un senso?»
«Usciamo e diamo un'occhiata.»
«Non possiamo entrare in una proprietà privata.»
«Io posso.»
«Aspetta, abbiamo bisogno di trovare altre informazioni.»
«È proprio quello che intendo fare.» Aprì la portiera e uscì.
Ashley imprecò e fece per raggiungerlo. Prima però aprì lo scomparto e prese la pistola.
Sapeva che non avrebbe dovuto averla e men che meno usarla. Però tenerla con sé la faceva sentire molto meglio, pensò mentre la infilava in borsa.
David si era già avviato verso la proprietà.
In quel momento Ashley si rese conto che avrebbero potuto vederli attraverso i campi.
«Dove stai andando?» urlò.
«Verso quegli alberi.»
«Se qualcuno guarda da questa parte adesso, ci vedrà benissimo.»
«Allora abbassati.»
«Vedranno la macchina.»
Si fermò di colpo. «Hai ragione. Spostala, portala dietro quegli alberi. Sbrigati.»
«Tu sei pazzo. Non mi stupisce che la polizia ce l'abbia con te. Dovrei mollarti qui e andarmene.»
«Ma non lo farai. Non mi lascerai qui, sai benissimo che Stuart aveva scoperto qualcosa.»
David allungò il passo per raggiungere gli alberi, dove sarebbe stato al riparo. Ashley imprecò e tornò all'auto più in fretta che poteva. Se qualcuno li stava davvero guardando, non ci avrebbe messo molto a insospettirsi.
Spostò velocemente l'auto e la lasciò dietro il recinto che segnalava il confine della proprietà, bordato di alberi e di cespugli. Uscì e guardò la lunga fila di alberi.
«David?» Si rese conto di aver bisbigliato. In giro non c'era nessuno. «David?» ripeté a voce più alta. E più arrabbiata.
A denti stretti si incamminò rapida lungo il recinto. C'era del filo spinato, ma non sembrava elettrificato. Doveva essere solo un tentativo di dissuasione. Gli alberi e i cespugli crescevano da entrambi i lati. Ashley procedette fino a quando il confine della proprietà piegò a gomito verso destra. Da lì i campi coltivati non erano più visibili. Si ritrovò in una specie di giungla. Un moscerino le ronzò vicino al viso. Imprecò e nel tentativo di ucciderlo si schiaffeggiò.
«David, sei un maledetto idiota» scattò con rabbia. Tornò indietro.
L'avrebbe piantato lì. Il suo senso di responsabilità non valeva anche per i maniaci che la trascinavano in un'avventura stupida come quella per poi abbandonarla.
Era convinta di procedere nella direzione giusta, ma un momento dopo si ritrovò in un campo. Pomodori.
C'era un uomo accucciato che lavorava. Indossava un paio di jeans e una camicia da lavoro senza maniche. Aveva un fazzoletto legato attorno al collo e un cappello da baseball per proteggersi dal sole. Prima che Ashley riuscisse a nascondersi, l'uomo si alzò in piedi. Era giovane. Quando si tolse il cappello per asciugarsi il sudore, Ashley vide che aveva i capelli biondo rossicci.
Le sorrise. «E tu da dove salti fuori?»
«Io... mi sono persa.»
Il sorriso si fece scettico. «Ti sei persa in un campo di pomodori?»
Iniziò a camminare verso di lei. Non c'era niente di minaccioso nel suo atteggiamento. Continuava a sorridere. Ashley vide un cestino pieno di pomodori rossi vicino a dove stava lavorando. E un rigonfiamento all'altezza della vita.
Era un coltello. Quando fu più vicino, vide che aveva una custodia in pelle attaccata alla cintura. Era un lungo coltello.
Il sole inondava la fattoria sonnacchiosa. L'uomo doveva avere più o meno la sua età, sorrideva, sembrava simpatico e per nulla preoccupato dalla presenza di una ospite nella sua proprietà, solo divertito.
In ogni caso, Ashley era contenta di avere in borsa la pistola.
«Così ti sei persa. Hai bisogno di usare il telefono? Vuoi entrare in casa per un bicchiere d'acqua o qualcos'altro?»
«Ho il cellulare, grazie.»
Annuì. «Ti posso offrire qualcosa da bere? Il sole scotta qui fuori.»
Ashley desiderava soltanto andarsene. Da una parte si sentiva un'idiota, dall'altra era tremendamente a disagio. Una cosa era certa, se la fattoria era solo una copertura, quel tizio non l'aveva invitata a entrare per bere un bicchiere d'acqua.
Però era un'opportunità. Avrebbe potuto parlare con quell'uomo e vedere l'interno della casa.
«Mi dispiace averti disturbato» disse in fretta. «Cercavo una casa, ma da queste parti trovare un indirizzo è praticamente impossibile. Ho pensato che forse, se avessi seguito il recinto, la casa vicina poteva essere quella che cercavo.»
«Ho i miei dubbi» mormorò il giovane. Le porse la mano. «Mi chiamo Caleb. Caleb Harrison. Vieni in casa. Sembra un viaggio, ma non è tanto lontana.»
«Davvero, non volevo disturbarti.»
«Non mi disturbi affatto. Quando si vive da queste parti, non si hanno molte occasioni di incontrare qualcuno. Sono contento dell'interruzione. La vita qui è piuttosto primitiva. Tanto lavoro duro, ma anche tempo di sentire il profumo delle rose, mi capisci?»
«Sì.» Ashley era immobile. Aveva la pistola e sapeva come usarla. Sarebbe stato stupido non approfittare di quell'occasione. Allungò la mano. «Monica Shipping, piacere.» Era il primo nome che le era venuto in mente. «Sì, grazie, berrei volentieri un bicchiere d'acqua.»
Mentre camminavano, lui le mostrò i campi di fragole e pomodori. «Dietro la casa ci sono verdure di ogni tipo. Crescono bene da queste parti. I nostri vicini hanno alberi di cedro. Non è il posto giusto per quelli, ma loro sembrano convinti di sì.»
Mentre si avvicinavano alla casa, Ashley vide gli edifici sul retro, alla fine del terreno.
«Vedi?» disse lui quando giunsero al giardino. «Cavoli, carote, c'è tutto. Siamo totalmente autosufficienti. Siamo tutti vegetariani, e questo aiuta, credimi.»
«Tutti?» chiese Ashley con un sorriso. «Quanti siete?»
«In questo momento? Siamo in otto.»
«Sei sposato? Una famiglia molto grande.»
«Siamo un gruppo di amici.»
«Un gruppo religioso?»
Lui rise. «No. Più come una comune. Solo un gruppo di persone che amano coltivare la terra, stare insieme e lontano dal traffico e dallo stress.»
«Sembra interessante.»
«Ti interessa?»
Sorrise dubbiosa. «Non lo so. Non ci ho mai pensato.»
«Dai vieni, così vedi il posto.»
La condusse fino a un gradino che portava a un piccolo portico. La zanzariera era chiusa, ma la porta di legno che c'era dietro era spalancata. Non c'era l'aria condizionata. Era una giornata di sole, ma non era ancora piena estate, l'interno della casa era abbastanza fresco.
Le sembrò di essere entrata in una fattoria del New England. Davanti al caminetto c'erano un tappeto fatto a mano, vecchi divani dall'aria comoda e coperte fatte in casa sparse in giro. C'erano anche due sedie a dondolo, un cestino per il lavoro a maglia e un mucchio di riviste. Sbirciò i titoli. Giardinaggio e fai da te.
«Vieni in cucina» disse lui.
Lo seguì. Sul bancone c'era un mucchio di verdure. Qualcuno stava preparando un grande pranzo. Un grande pranzo vegetariano.
Erano autosufficienti, avevano rinunciato all'aria condizionata, ma non all'elettricità.
Il ragazzo aprì il frigorifero. «Acqua o succo di frutta?»
In quel momento Ashley avrebbe avuto bisogno di un caffè doppio, ma lì non l'avrebbe trovato.
«L'acqua va benissimo, grazie.»
Le versò un bicchiere d'acqua fredda e le fece cenno di sedere al tavolo della cucina.
Ashley si sedette e si guardò attorno. Quel posto era affascinante, a modo suo. Pentole e accessori di rame erano appesi a ganci nel soffitto. Sui davanzali erano allineati barattoli di marmellata. Sulle sedie campeggiavano cuscini fatti a mano di un azzurro vivace.
Il ragazzo sorrise. «Vado tutti i giorni in quel campo di pomodori. Ma è la prima volta che vedo arrivare una bella donna. È un po' strano.»
«Grazie» mormorò Ashley.
«Cosa fai?»
«Sono un'artista. Disegno.»
«Per i turisti?»
Non lo corresse.
«Stai cercando una casa da queste parti?»
Lei rise. «Sì. Ma non sono un'idealista come te. Pensavo solo a un pezzetto di terra, un po' di spazio.»
Annuì. «È un desiderio che hanno in molti. Devi essere brava a disegnare per potertelo permettere.»
«Sì, me la cavo bene. Con i turisti è facile, basta convincerli che qualcosa è tipico del posto e ti comprano di tutto.»
«Se hai bisogno di un cesto di pomodori, per disegnare una natura morta, fammelo sapere.»
«Grazie.» Posò il bicchiere. «Ora però devo proprio andare.»
«Ti accompagno alla macchina.»
«No, ti ho già fatto perdere troppo tempo.»
«Mi ha fatto piacere. Spero di rivederti. Tutti i sabato sera la nostra Maggie suona, è una chitarrista folk. È molto brava. Potresti venire, se sei libera.»
«Grazie. Forse verrò.»
Uscirono insieme, ma quando lei insistette che era in grado di ritrovare da sola la macchina, lui tornò al campo di pomodori. Ashley si incamminò. Era consapevole che lui continuava a fissarla, ma non si voltò. Otto persone. Le sembrò strano non aver visto nessun altro, se c'era tanta gente che viveva lì.
Continuò a guardare la strada, costeggiò la recinzione con il filo spinato e raggiunse l'auto. Di David neppure l'ombra. Salì e lo maledisse per l'ennesima volta. Mise in moto e cominciò a guidare molto piano.
«Dove sei finito?» borbottò tra sé.
In quel momento lo vide fra gli alberi, a una ventina di metri di distanza. Avanzò ancora un po', poi si fermò, spense il motore e attese che la raggiungesse. Lui saltò subito in macchina.
Con un sospiro di sollievo le sfiorò il volto. «Stavo per chiamare i rinforzi.»
«Rinforzi?»
«Forse avrei dovuto dire la polizia, ma dato che tu in qualche modo ne fai parte, ho pensato che rinforzi fosse la parola giusta.»
«Avrei dovuto lasciarti qui. Sono stata beccata a girovagare nella proprietà.»
«Sì, ti ho visto con un tipo.»
«Me lo sono trovata davanti in un campo di pomodori. Ma è stato gentile.»
«Raccontami tutto.»
«È una casa molto bella e molto pulita. Mi ha detto che ci vive con altre sette persone. Vivono dei prodotti della terra. È una comune.»
«E gli altri com'erano?»
«Non ho visto nessun altro.»
«E allora dov'erano?»
«Non lo so. Forse di giorno lavorano in città e la notte si trasformano in figli dei fiori. Non ha avuto un atteggiamento minaccioso, non ho visto piantine di marijuana in mezzo ai pomodori. In realtà non ho visto niente di strano.»
«Dobbiamo scoprire chi è il proprietario» disse David.
«Caleb Harrison, ha detto di chiamarsi così.»
«Biblico.»
«Mi ha spiegato che non hanno niente a che vedere con la religione. Conosco diverse persone da queste parti che si chiamano Jesus, ma non sono fanatici religiosi.»
«Dovremmo continuare il sopralluogo.»
«No, dobbiamo solo allontanarci da qui» disse Ashley risoluta. Accese il motore.
David non ebbe il tempo di rispondere.
Sentirono un colpo sul retro dell'auto.
Ashley si voltò. Vide un uomo alto, che indossava una tuta e un cappello di paglia. Li guardava minaccioso.
E aveva un fucile.
16
All'ultimo domicilio conosciuto di Cassie Sewell c'era ben poco da fare. Nell'appartamento ora viveva una famiglia e la signora aveva spiegato alla polizia che non erano rimaste molte tracce degli inquilini precedenti. La casa era stata tinteggiata e la moquette sostituita.
Una squadra della scientifica avrebbe comunque controllato l'abitazione per cercare di scoprire se la donna era stata uccisa lì.
Jake però aveva qualche dubbio. Era sicuro che Cassie avesse lasciato il lavoro e liberato l'appartamento, per poi andare incontro al suo destino.
«Vuoi che torni in ufficio a proseguire con le ricerche?» chiese Marty non appena furono fuori dalla casa.
«Sì, scopri a chi ha fatto l'ultimo assegno e dove ha effettuato l'ultimo acquisto con carta di credito. Aveva un'auto, una BMW, che è sparita insieme a lei. Segui anche quella pista.»
«E tu, che cosa farai?» chiese Marty.
«Un giro in macchina.»
«Un giro?»
«Vado a controllare le case nell'elenco» rispose Jake. «Ah, grazie per aver organizzato la sorveglianza all'ospedale.»
«Secondo me è del tutto inutile, ma se è questo che vogliono... E poi chissà? Magari c'è davvero qualcuno che vuole uccidere il ragazzo.»
«Grazie comunque.»
«Torno a occuparmi del nostro caso.»
«Tienimi aggiornato.»
Quando Marty si fu allontanato, Jake decise di cambiare programma. Sarebbe prima passato dalla Gwendolyn.
Da Nick c'erano diversi clienti, seduti ai tavolini del portico. Jake si incamminò lungo il molo e salutò Sandy, seduto con le gambe stese al sole sul ponte della sua barca.
Sandy rispose al saluto con un cenno della mano, sollevò il cappello e si rimise comodo.
Jake salì a bordo, in apprensione e con tutti i sensi all'erta. Quando fu dentro, comunque, ebbe la certezza che ogni cosa fosse esattamente come l'aveva lasciata. Disordine incluso. Le tazze nel lavandino, il letto sfatto. E un pizzo rosso che spuntava da sotto il cuscino. Si era preoccupato di far avere ad Ashley la borsa, ma non era proprio il caso di dare a Sandy anche la biancheria intima. Così l'aveva infilata sotto il cuscino.
Si avvicinò al letto e sollevò il cuscino. Vi era ancora il profumo di Ashley. Al ricordo delle sensazioni provate con lei sentì un nodo allo stomaco, una fitta di desiderio. Rimise a posto il cuscino e si domandò se non si stavano comportando come due pazzi incoscienti. Poi però ricordò come si era comportata Ashley quella mattina. Sotto lo sguardo di tutti era impallidita di colpo, ma senza ostentare indifferenza o cercare di giustificarsi o di scusarsi.
Si chiese se quella sera sarebbe tornata.
Si rese conto di quanto la desiderasse. Quando era con lei c'erano momenti in cui il mondo intero avrebbe potuto schiantarsi contro il sole e lui non si sarebbe neppure accorto di morire. La sua sensualità era naturale e spontanea. A letto era straordinaria. Ma non era questo. O almeno non era solo questo. Ashley era una sfida continua. Aveva fatto vacillare ogni sua certezza. Non gli piaceva solo dormire con lei, gli piaceva anche svegliarsi accanto a lei. In passato, quando una donna si fermava troppo a lungo si sentiva soffocare, ma quando Ashley non era con lui ne sentiva la mancanza. Poteva essere tutta lavoro, freddezza ed efficienza. Poteva essere distaccata, arrabbiata e testarda. Ma era sempre e comunque sensuale e irresistibile, senza accorgersene. E tenace.
Decise di telefonare a Carnegie. Il collega lo rassicurò, non se l'era presa per il servizio di sorveglianza davanti alla camera, se la famiglia voleva proteggere il figlio ne aveva tutti i diritti.
«Ci sono novità?» chiese Jake.
«Zero. Gli unici che credono che dietro l'incidente del ragazzo ci sia qualche mistero sono i genitori, l'amica che ti ha coinvolto e quel matto che scrive per quel giornale e che ha dato false piste ai poliziotti. Ma le indagini sono ancora in corso.»
«Grazie. Senti, oggi sono pieno di lavoro, ma se riesco vorrei andare a parlare con quelli del giornale, se a te non dispiace.»
«Figurati. Te l'ho già detto, faccio questo mestiere da troppo tempo per permettere all'orgoglio di intralciare la verità. Ogni aiuto è il benvenuto.»
Terminata la telefonata, Jake diede un'occhiata all'orologio. Aveva perso fin troppo tempo. La giornata stava volando via. Non avrebbe dovuto essere lì. Doveva sbrigarsi e andare a controllare le case. Non poteva permettersi di buttare via il tempo per un caso che non era neppure suo.
Si sedette alla scrivania e si strofinò le tempie, tormentato dal mal di testa. Accese il computer e controllò alcuni dati.
Chiunque fosse stato sulla barca non era venuto per rubare ma per avere informazioni. Ne era più che sicuro.
Questo significava che era in possesso di informazioni che interessavano a qualcuno.
Ma quali?
Parole, numeri e nomi gli ondeggiarono davanti agli occhi.
Fumo e specchi.
Cadaveri, descrizioni delle mutilazioni inflitte ai corpi. Il dato più evidente comune a tutte le vittime era il taglio delle orecchie.
Una setta religiosa.
Le orecchie mozzate. Come al generale Custer a Little Big Horn, perché non aveva ascoltato le parole dei Sioux, non era stato a sentire.
Ovvio.
E se invece non fosse stato così ovvio?
Se le orecchie fossero state tagliate proprio per quello che le vittime avevano sentito? Il dubbio restava. Pensò alla lista delle proprietà gestite da Cassie Sewell, prese il telefono e compose un numero.
Mentre aspettava che rispondessero continuò a riflettere.
Fumo e specchi.
Tornò alla spiegazione più logica. Le donne morte erano associate al culto. Erano morte perché non avevano assecondato il loro leader, avevano messo in dubbio i suoi insegnamenti, non avevano seguito i suoi comandamenti.
E se il culto in se stesso fosse stato solo fumo?
«Sharon, sei qui?» chiamò Nick Montague.
Il bar era tranquillo. Katie si occupava dei pochi clienti.
Nick era ancora turbato. Non riusciva a dimenticare la delusione per aver dovuto scoprire dal giornale che Ashley aveva cambiato lavoro. Aveva la sensazione che sua nipote gli stesse sfuggendo.
L'auto di Sharon era nel parcheggio. Non era al bar, quindi doveva essere in casa. A pensarci bene, negli ultimi tempi Sharon si era comportata in modo piuttosto strano. Era normale che fosse spesso in giro, per via del suo lavoro, ma in passato lui aveva sempre saputo dove si trovava. Gli descriveva le case che doveva vendere, gli diceva se andava a pranzo con qualche cliente o a firmare un contratto. Ma negli ultimi tempi era diversa. Un minuto prima era affettuosa e quello dopo era scontrosa e silenziosa.
Pensò che non avrebbe dovuto dedicare tanto tempo al locale. Negli ultimi mesi il ristorante gli assorbiva ogni energia. Forse era giunto il momento di smettere di pensare al lavoro e di concentrarsi di più sulla sua vita privata.
Aveva bisogno di passare un po' di tempo con sua nipote. E di avere più tempo per Sharon.
Si accorse di avere i palmi delle mani leggermente sudati. Forse sbagliava a preoccuparsi. Sharon era molto bella. Intelligente. Era divertente stare con lei. Ma lui viveva il loro rapporto con leggerezza. Del resto, prima della morte del fratello, prima di diventare il tutore di Ashley, aveva vissuto tutto con leggerezza. Il bar era il posto ideale per lui, poteva stare vicino alle barche, che erano state tutta la sua vita. Mare, pesca, gite in barca a vela fra le isole. Limitarsi a sopravvivere e a godersi la vita. Le relazioni impegnative non facevano per lui, il mondo era troppo grande e c'erano troppe donne in bikini per fermarsi a una sola. Poi suo fratello era morto. Era toccato a lui andare a prendere Ashley dalla vicina che le faceva da babysitter e cercare di spiegarle che i genitori non sarebbero mai più tornati a casa. L'aveva abbracciata forte e in quel momento tutta la sua vita era cambiata di colpo. Per anni si era preoccupato solo che il locale andasse bene. Da quel momento essere un quasi-padre era diventata la sua priorità.
Ed era stato ripagato. Sapeva di aver cresciuto una ragazza intelligente e responsabile. Le aveva lasciato un'ala della casa perché potesse essere indipendente, ma sotto la sua guida e la sua protezione.
E adesso era una donna adulta.
La relazione con Jake Dilessio lo preoccupava. Stimava Jake, ma solo se stava alla larga dalla nipote. Dopo la morte di Nancy Lassiter, Jake era passato da una donna all'altra. Ashley non poteva capire uno come lui. Una persona eccezionale sul lavoro, perché il lavoro era tutta la sua vita. Una persona che non prendeva impegni perché aveva il mondo intero a sua disposizione. Nick invece lo capiva. Anche lui era stato così.
Entrò in cucina, preoccupato. Prese una bottiglia d'acqua dal frigorifero, andò in camera e poi tornò in salotto. «Sharon?»
«Eccomi, arrivo» gli rispose Sharon, finalmente. Usciva dalla camera di Ashley.
Nick fu sorpreso e preoccupato quando la vide arrivare da quella parte della casa. Non che fosse proibito, Ashley non chiudeva mai a chiave. Lui però non ci entrava mai senza un motivo, o addirittura senza bussare. Ed era la prima volta che vedeva Sharon nella camera di Ashley.
Sharon si accorse della sua reazione e si affrettò a spiegare. «Ho portato in camera di Ashley alcuni dei suoi vestiti che erano finiti in mezzo ai nostri.»
«Ah.»
«Mi spiace, non ti ho sentito prima.»
«Non importa.»
«Che c'è?»
«Cosa?» Nick aveva dimenticato il motivo per cui l'aveva cercata. Poi gli tornò in mente. «Pensavo... al bar c'è Katie e sembra un pomeriggio tranquillo. Potremmo farci un giro in barca. Noi due soli. Oppure uscire a cena. Tu ti fai bella e ti porto in qualche ristorante di classe. A Keys o a Fort Lauderdale. Dove abbiano un menù coi fiocchi, tovaglie immacolate e una cantina degna di tale nome.»
«Anche qui il vino è ottimo.»
Lui scoppiò a ridere. «La birra, forse. Che ne dici di un posto più elegante?»
«Mi piacerebbe» rispose Sharon. «Ma c'è un problema. Questa sera probabilmente dovrò mostrare una casa a un cliente, verso le otto. Non potevo immaginare che avresti deciso di mollare il tuo secondo figlio - cioè il ristorante - e ho già detto che sarei stata libera. Se il cliente mi chiama, sono obbligata ad andare.»
«Allora vediamo di sfruttare al meglio il tempo che ci resta» mormorò Nick in tono allusivo.
«L'idea mi piace» rispose Sharon.
Andò verso di lui e gli buttò le braccia al collo.
L'uomo con il fucile si avvicinò al finestrino del posto di guida. Ad Ashley era sembrato più vecchio. Quando fu più vicino, invece, si accorse che non lo era affatto, non aveva più di quarant'anni. Era magro e asciutto, con la pelle cotta dal sole. Dal cappello di paglia spuntavano riccioli biondi.
«Posso aiutarvi?» chiese in tono gentile.
Prima che Ashley potesse rispondere, David si sporse in avanti. «Credo proprio che ci siamo persi» annunciò, mentre passava un braccio attorno alle spalle di una stupitissima Ashley. «Io e mia moglie stiamo cercando una casa da queste parti. Ci hanno dato questo indirizzo.» Sollevò il foglio di carta, ma lesse un indirizzo inventato.
Ashley si chiese che cosa gli fosse saltato in testa, ma rimase in silenzio. Forse David aveva le sue ragioni. E poi quell'uomo era armato.
«Siete nel posto sbagliato» disse l'uomo. Accarezzò il fucile. «Mi spiace, non volevo spaventarvi. È che a volte da queste parti circolano strani personaggi. C'è una prigione, non molto lontano da qui. Ma è un posto tranquillo. Comunque avete sbagliato direzione. Dovete tornare sulla strada principale.»
«Che cosa ti avevo detto?» sbottò David rivolto ad Ashley, poi tornò a guardare l'uomo. «Ha appena preso la patente, sa com'è...»
«Nessun problema» minimizzò l'uomo. «Potete fare inversione laggiù.»
«Grazie» disse Ashley.
Mentre si affrettavano a tornare indietro, Ashley vide che l'uomo era ancora fermo in mezzo alla strada e li seguiva con lo sguardo.
«Imbecille» disse a David.
«Cara, lo sanno tutti che le donne non sanno guidare.»
Gli lanciò un'occhiata omicida. «È stata proprio una giornata redditizia. Sono finita in un campo di pomodori, ho conosciuto un figlio dei fiori e un contadino con il fucile e ci siamo comportati come una coppia di idioti con un tizio che voleva solo darci delle indicazioni. E che cosa abbiamo scoperto? Che Stuart indagava su qualcuno che coltiva fragole.»
«Non è vero. Sappiamo benissimo tutti e due che c'è sotto dell'altro.»
«No, non abbiamo nessuna prova.»
«Dobbiamo tornare là. Controllare anche i campi confinanti.»
«Va bene, signor giornalista, torna pure alle tue esplorazioni e fatti pure crivellare da un fucile a panettoni. Io intanto vedrò di scoprire chi sono i proprietari.»
David rimase in silenzio.
«Allora?»
«Ottima idea» mormorò in tono ammirato, poi sorrise.
Un tempo Jesse Crane aveva fatto parte della polizia di Miami-Dade. Ma era stato molti anni prima. Era ancora nella polizia, però dopo la morte della moglie aveva scelto di lavorare nella zona dove era nato, nella terra che in parte era territorio degli indiani Miccosukees. Conosceva quel territorio e i suoi abitanti come il palmo delle sue mani e sapeva orientarsi nel labirinto dei canali meglio di chiunque altro. Era un uomo calmo e taciturno, che emanava forza, sicurezza e saggezza. I tratti somatici da nativo americano e gli occhi color nocciola conferivano al suo viso un fascino intenso e speciale.
«Eccoci. Quelle sono le proprietà che ti interessano» disse a Jake.
Fino a quel momento il frastuono del motore dell'idroscivolante aveva impedito loro di parlare. Ora Jesse l'aveva spento e procedevano per inerzia. Sembrava quasi di essere sulla terraferma, tanto erano alte e fitte le alghe in quel punto.
«Ci si può avvicinare di più?»
«Sì, con un'imbarcazione come questa sì. O con una canoa.» Guardò Jake e si strinse nelle spalle. «I canali vengono spesso usati per traffici illegali, se uno li conosce può navigare per chilometri senza rischiare di imbattersi in qualcuno. Ma cosa stai cercando esattamente?» Controllò la direzione dell'idroscivolante, poi tornò a guardare Jake. «Ho letto del cadavere che è stato ritrovato, ma pensavo che avresti indagato fra i gruppi religiosi, come l'altra volta.»
«È così.»
Jesse rimase in silenzio. La barca continuava ad avanzare.
«Perché c'è gente che sceglie di vivere qui? Che cosa fanno da queste parti?» chiese Jake.
«Per il bestiame non è un granché. Troppo fango. Basta un tornado come Andrea o un semplice temporale per affondare nel fango per settimane, o per mesi. Ma la terra viene venduta lo stesso e chi la compra alleva qualche cavallo, mucche, polli, anche maiali. Ci sono parecchi agricoltori. La terra è molto fertile. I miei antenati coltivavano zucche. Adesso però è più facile che ci siano fragole. E agrumi. E poi la terra qui costa meno. Ci si possono costruire case spaziose, campi da tennis, piscine, insomma tutto quanto. E vivere lontano dalla civiltà.»
Jake rimase in silenzio a osservare il paesaggio. Da dove si trovavano aveva una buona visuale delle case, tutte costruite ben lontane dalla riva, che comunque rappresentava un contatto con la civiltà.
«Sono due le cose più frequenti da queste parti: il traffico di droga e gli omicidi. A volte contemporaneamente» aggiunse Jesse.
Jake si limitò ad annuire.
«Alle donne che sono state uccise avevano tagliato le orecchie, giusto?» chiese Jesse.
«Sì.»
«Forse perché non avevano dato retta alle parole del santone, o forse perché avevano ascoltato troppo. Tradite dalle orecchie. Occhio per occhio... O forse è stato solo un modo per sviare le indagini della polizia.»
«Esattamente quello che ho pensato anch'io» borbottò Jake, stupito. «Sono andato a parlare con Peter Bordon» aggiunse.
«E cosa ti ha detto?»
«Fumo e specchi» citò Jake. «So che c'è qualcosa che non riesco a vedere. È come se fossi troppo concentrato sui particolari per vedere tutto l'insieme. C'è qualcosa che mi sfugge.»
«Ti auguro di riuscire a riacchiapparlo in fretta. Ho sentito dire che Peter Bordon verrà rilasciato.»
Ashley accompagnò David Wharton al posteggio dove aveva lasciato la macchina. Lui sarebbe andato direttamente in comune per controllare a chi apparteneva la casa.
«Certo che è piccolo il mondo» borbottò Ashley. Si era ricordata che solo quella mattina la sconosciuta di Jake era stata identificata, e anche lei era nel settore immobiliare.
«Perché?» chiese David.
«Così...» Non voleva parlare del caso di Jake. Soprattutto a un giornalista. «Chiamami sul cellulare» aggiunse. «Vado all'ospedale.»
«Mi sembrava di aver capito che Nathan Fresia ti avesse chiesto di non farlo.»
«Sì. Ma adesso c'è la polizia. E non ho bisogno di entrare nella stanza di Stuart per sapere come sta. E poi voglio portare dei fiori a Lucy.»
«Scappo. Non ho tempo da perdere, non so a che ora chiudano gli uffici.»
Si salutarono e Ashley proseguì verso l'ospedale.
Nel garage si sentì di nuovo insicura e a disagio. Ma era ancora giorno e c'erano parecchie persone. Decise di chiamare Nick, non ricordava se avevano preso accordi per la cena. Rispose Katie, che le spiegò che suo zio era fuori con Sharon.
«Lasciata per un'altra donna» disse Ashley.
«Non ti lascerà mai. Avevate un appuntamento?»
«No, forse ne avevamo solo parlato, non mi ricordo. Grazie Katie, se hai bisogno di aiuto al ristorante chiamami.»
Ashley andò all'accettazione e si fece dire in che camera fosse Lucy Fresia. Per fortuna il negozio era ancora aperto e riuscì a comprarle dei fiori.
A differenza della freddezza dimostrata da Nathan, Lucy fu molto felice di vederla. Era agitata e impaziente, avrebbe voluto essere vicino al figlio. Ma Nathan le aveva proibito di muoversi.
«Lucy, mi creda, né io né le altre abbiamo inciampato in un filo o staccato qualche spina» disse subito Ashley.
Lucy sorrise. «Tesoro, Nathan crede ancora agli incidenti. Io no. Non è per un incidente che Stuart è in coma, e non mi importa se i poliziotti mi ritengono un po' matta. Non credo che quella spina sia stata staccata per sbaglio. Grazie per aver organizzato la vigilanza, io non ci avrei mai pensato. So che ti sei impegnata a pagarli di persona, ma non devi, io e Nathan possiamo permettercelo, non preoccuparti.»
«Ne parleremo più avanti.» Le strinse la mano. «Quando Stuart starà meglio.»
Lucy le sorrise, grata. Lisciò il lenzuolo. «Mi dimetteranno solo domani mattina, ma almeno da qui non devo fare troppa strada per arrivare da Stuart.»
«Giusto.»
«Ascolta, forse Nathan non ti accoglierà bene, ma passa da lui, se hai un po' di tempo. Digli che vorrei tanto che venisse a darmi un bacio e a portarmi notizie di Stuart.»
«Lo farò.»
Ashley salutò Lucy e scese al piano inferiore. Ormai conosceva l'ospedale fin troppo bene.
La sala d'aspetto del reparto rianimazione era vuota. Ashley andò alla stanza di Stuart, con la speranza che le tende non fossero chiuse e che Nathan potesse vederla e uscire per parlarle.
Si fermò di colpo. Seduto davanti alla stanza c'era un poliziotto in borghese.
Fin lì niente di strano.
Solo che il poliziotto era Len Green. E la cosa la stupì.
«Len!»
«Ciao, piccola.» Si alzò e le andò incontro. La baciò su una guancia.
Ashley lo guardò. «Ti ho cercato al distretto, mi hanno detto che non c'eri.»
«Infatti. Ho saputo del servizio di vigilanza e quando ho capito di chi si trattava mi sono offerto come volontario.» Abbassò la voce. «Non so come siano messi a soldi i genitori e ho pensato che dato che l'idea era tua forse avresti dovuto pagare di persona, così ho deciso di fare qualche ora gratis.»
«Grazie, Len.»
«Nessun problema.»
«Ma i Fresia possono pagare e, a meno che tu non abbia vinto alla lotteria, sono sicura che un po' di soldi in più possono farti comodo.»
Prima che Len rispondesse, la porta si aprì. Evidentemente Nathan l'aveva vista arrivare. Era spettinato e i vestiti erano sgualciti. Ashley si preparò al peggio, non sapeva come l'avrebbe accolta.
«Come sta?» chiese piano Ashley.
«Sempre uguale. Non migliora, ma almeno non peggiora.» Nathan si passò le mani fra i capelli, riuscendo solo a scompigliarli ancora di più. «Scusa per quanto ti ho detto nelle ultime ore, Ashley. Non volevo essere così duro al telefono, ma i dottori hanno detto che nella stanza erano entrate troppe persone e...»
«Non si preoccupi, Nathan» lo interruppe Ashley. «Lucy vorrebbe vederla. Se si fida, resto io con Stuart.»
Nathan non rispose, ma la baciò in fronte.
«Fine del turno per me» mormorò, in un tentativo di alleggerire la tensione.
Lo seguirono con lo sguardo mentre si allontanava.
«Grazie di essere venuto, Len. Vado da Stuart.»
«Io sono qui fuori.»
Ashley entrò nella stanza. Prese il telefono per controllare di non aver perso nessuna chiamata e tolse la suoneria.
Si sedette accanto a Stuart e per un po' ascoltò il ronzio delle macchine a cui era collegato. Poi gli prese la mano e, come faceva sempre, cominciò a raccontargli la sua giornata. Gli disse dov'era stata con David Wharton e cosa avevano fatto. Gli spiegò che forse avevano una pista, anche se non aveva la più pallida idea di dove li avrebbe portati.
Sollevò lo sguardo e vide Len. Era lì fuori a braccia incrociate. Si sentì al sicuro.
Poi si chiese se Len aveva sentito tutto quello che aveva detto a Stuart. Non aveva parlato ad alta voce, ma non aveva neanche bisbigliato. Quella possibilità la infastidì.
Len aveva un'espressione accigliata. Quando si accorse che lo guardava però sorrise e le fece un cenno di saluto. Poi si portò la mano sopra gli occhi e guardò in tutte le direzioni, come se stesse scrutando l'orizzonte. Lei sorrise e sollevò i pollici.
Nathan non tornava. Era passato un bel po' di tempo ormai. Non le dispiaceva stare con Stuart, ma quel ritardo la stupiva.
Quando tornò, comprese il motivo. Lucy doveva averlo convinto ad andare a casa a farsi una doccia. Era ben pettinato e indossava vestiti puliti. Le fece cenno di uscire e si scusò per essere stato via tanto a lungo.
«Volevo avvertirti, ma Lucy ha detto che avresti capito.»
«Sarei rimasta tutta la notte, se ce ne fosse stato bisogno» lo rassicurò.
«Comunque adesso sono qui e tu sei libera.» La baciò di nuovo in fronte. «Grazie, Ashley, e grazie anche a lei giovanotto.»
«È stato un piacere» disse Len.
Nathan entrò nella stanza e chiuse la porta.
«Pensi che uscirà dal coma?» chiese Len sottovoce.
«Sono sicura che uscirà dal coma» rispose, forse con troppo impeto.
«Ehi, andrà tutto bene.»
«Scusa, non volevo essere così brusca.»
«Non preoccuparti. Ho sentito che i tuoi disegni sono stati risolutivi. Domani sera avremo parecchie cose da festeggiare.»
«Domani sera?»
«Festeggiamo la tua promozione, ricordi?»
«Hai ragione, l'avevo dimenticato. A proposito, ieri sera, quando hai accompagnato Karen, è andato tutto bene?»
Per un attimo ebbe l'impressione che Len si fosse messo sulla difensiva.
«In che senso?» Questa volta fu lui a essere brusco.
«Karen è malata oggi. Ho provato a chiamarla a scuola.»
Len scosse la testa. «Forse aveva solo bisogno di un giorno di riposo. Ti assicuro che ieri stava benissimo.» Sorrise. Ad Ashley parve un sorriso un po' finto.
«Hai ragione, forse non aveva voglia di andare al lavoro. Allora io vado» annunciò. «Quanto ti fermi qui? Non cominci presto domani mattina?»
«Non starò ancora molto. Tra poco arriverà una collega a darmi il cambio per la notte.»
«Ancora grazie, Len. Grazie davvero.»
Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulla guancia. Ma lui spostò il viso e le loro labbra si sfiorarono.
Ashley si scostò subito. Adesso era lei ad avere un sorriso finto. «A domani sera, allora.»
Len annuì e Ashley si avviò lungo il corridoio.
Si voltò e vide che lui la guardava ancora. Gli fece un cenno con la mano e corse via.
Solo mentre aspettava l'ascensore si rese conto che dopo aver tolto la suoneria aveva buttato il telefono in borsa. Se qualcuno l'avesse chiamata non avrebbe potuto sentirlo. Erano già le cinque passate, David doveva essere uscito da un bel pezzo dagli uffici del comune.
Controllò. Come temeva, c'era una chiamata persa.
Scese in ascensore fino al garage. Mentre si dirigeva alla macchina sentì il messaggio di David. Sembrava molto eccitato.
«Ashley! Maledizione, ma perché non rispondi? Comunque, il proprietario della casa è Caleb Harrison. Ma senti qui. Indovina chi ha seguito la vendita? Non ci crederai.»
17
Ashley era così sbalordita dal nome che aveva appena sentito che si bloccò di colpo.
Fu a quel punto che sentì un rumore di passi alle sue spalle.
Passi pesanti. Minacciosi. Si voltò lentamente. Nel garage vi erano molte macchine, zone d'ombra, angoli oscuri. Ma non vide nulla. Niente che si muoveva. Nessuno che veniva verso di lei.
Sentì il rumore di una portiera sbattuta con violenza. Guardò in quella direzione. Una giovane donna vestita da infermiera era appena scesa dall'auto. Le passò accanto. Le sorrise. Ashley restò immobile.
Decisa a non lasciarsi intimorire, riprese a camminare. Ma sentì di nuovo l'eco dei passi. Non era un rumore forte, sembrava piuttosto il passo di chi cammina furtivo. Ashley si fermò, si voltò e si guardò in giro. Non smetteva di torturare la tracolla della borsa. La pistola era sempre lì.
«Chi è?» urlò. Compì un giro completo su se stessa.
Ancora niente. Riprese a camminare.
Di nuovo rumore di passi.
Era quasi arrivata alla macchina. Il suono si faceva sempre più vicino.
Si fermò, estrasse la pistola e si girò. La teneva alta e con due mani. Una macchina svoltò da un angolo. La donna al volante sbarrò gli occhi e urlò. Ashley abbassò immediatamente la pistola e si maledisse.
«È tutto a posto, polizia!» gridò.
Tremava come una foglia. Polizia, un corno. Era solo una disegnatrice della scientifica, non un ufficiale che aveva prestato giuramento alla legge, e se ne stava lì a impugnare una pistola in un garage pubblico. Doveva tornare in sé.
Si bloccò.
Ancora quei passi. Calmi, misurati, alle sue spalle. Si voltò, la pistola stretta fra le mani, ma non l'alzò.
Grazie al cielo.
Le uscì un sospiro.
«Len! Cosa ci fai qui? Non dovresti essere di guardia? Mi hai spaventata a morte.»
«Io? Io ho spaventato te? Sei tu quella che ha in mano una pistola. Perché ce l'hai ancora? Sai benissimo che avresti dovuto restituirla nel momento in cui hai lasciato l'accademia.»
«Lo so, hai ragione.»
«Cos'è successo? Perché sei così spaventata?»
«Perché non sei al tuo posto?»
«La sostituta è arrivata prima del previsto, così sono venuto a cercarti per scroccare un passaggio a casa. Sono senza macchina. Adesso tocca a te. Cosa ci fai con quella pistola?»
«Mi è sembrato di sentire...»
«Ashley, anche ammesso che qualcuno ti abbia seguita l'altra notte, di certo non è più qui. Perché hai ancora paura?»
«Perché c'è qualcosa di poco chiaro nella storia di Stuart. Sono convinta che qualcuno non voglia che io prosegua le indagini.»
«Devi essere davvero preoccupata» mormorò. La guardò negli occhi.
«Sto bene. E scoprirò la verità.»
Len si guardò attorno. «Ashley, stai attenta con quella pistola. Passa un sacco di gente qui.» Sospirò. «Lavori domani?»
«Sì.»
«Ti chiederanno di restituire la pistola.»
«Sì. Immagino di sì. Andiamo, ti accompagno.»
«Ashley, mi stai nascondendo qualcosa?» chiese Len quando furono seduti in macchina.
«No, sono solo stanca.»
«E nervosa. Ci fermiamo a bere qualcosa?»
«Non bevo mai, se devo guidare.»
«Tu bevi e io guido.»
Nonostante tutto le venne da ridere.
«Non ha senso. La macchina è mia. Poi resteresti bloccato da Nick.»
«La cosa non mi dispiacerebbe affatto» rispose, lo sguardo fisso davanti a sé.
Ashley trattenne il fiato e si concentrò sulla strada. «Len...»
«Sì, lo so. Non volevi una relazione perché eri troppo presa dall'accademia. Ma adesso la situazione è cambiata.»
«Ho iniziato un nuovo lavoro. Ed è piuttosto impegnativo.»
«Impegnativo. Giusto.» Len si irrigidì. «Un posto come quello non capita tutti i giorni. Non hai pensato che ci sono decine di persone che farebbero carte false pur di averlo? Potresti scoprire che ti sei fatta dei nemici.»
La durezza con cui aveva parlato la impensierì. «Forse. Ma non sono tutte rose e fiori. Il primo giorno all'obitorio è stata dura. E poi ho sputato l'anima all'accademia, e adesso devo ricominciare a darmi da fare.»
«Già, a darti da fare con i pezzi grossi della polizia.»
Le mancò il fiato. In un certo senso, Len si comportava come se lo avesse tradito.
«I disegnatori della scientifica hanno spesso rapporti con i detective. È così che funziona» rispose, nel tono più indifferente che poté.
«Hai capito benissimo di cosa stavo parlando.»
«Che vuoi che ti dica, Len? Non ho mai voluto ferirti, ma non ti ho mai neanche incoraggiato. E poi, c'è una mia amica, molto bella, che è pazza di te, e tu sei molto galante con lei.»
«Karen.»
«Sì, Karen. Len, ascolta. Sono contenta di mettere le cose in chiaro. Tu mi piaci. Sei un bravo ragazzo e sono contenta di averti come amico. Ma...»
«Non sono abbastanza uomo per te, è questo che vuoi dirmi?»
«Len, ma che cosa ti prende oggi?»
«Scusa.» Non la guardò. «Mi sto comportando da idiota.»
«A Karen piaci un sacco. Lo sai.»
«Già, Karen.»
«Dove vuoi che ti porti?»
«Da Nick va bene. Sono fuori servizio. Ho voglia di bere qualcosa.»
«E poi come torni a casa?»
«Mai sentito parlare di taxi? Se non trovo di meglio, ne chiamerò uno. Non ti preoccupare, non verrò a cercarti per farmi dare un passaggio.»
«Non è un problema accompagnarti, ma...» Esitò. Aveva altri progetti per la notte. «Sono a pezzi» concluse.
«Ashley, non importa. Te l'ho detto, prenderò un taxi.»
«Va bene.»
Arrivarono da Nick. Quando uscì dalla macchina Len era ancora sulle sue. Seguì Ashley sul portico e dentro al bar. Katie era dietro al bancone.
«Sono tornati?» chiese Ashley.
«No, Nick e Sharon sono ancora fuori.»
Lei cercò di nascondere la delusione. Passò dietro al banco per servire una birra a Len. Sperava che bere qualcosa gli avrebbe fatto passare il malumore, così finalmente se ne sarebbe tornato a casa. Len si sedette al bancone tra Sandy e Curtis. Parlavano di un incidente accaduto quella mattina sulla superstrada di Palmetto.
Gli posò davanti il boccale di birra e lui la ringraziò con poco calore. Poi Ashley li salutò e uscì dal ristorante per andare in camera.
Entrò in soggiorno e si fermò.
Sharon.
Sharon Dupre. Era stata lei a vendere la casa all'attuale proprietario. La notizia l'aveva sbalordita. E proprio quando aveva urgenza di parlare con lei, era uscita con Nick per una seratina romantica.
Si avvicinò alla porta della camera da letto dello zio. Sharon ormai si fermava a dormire molto spesso. Forse aveva lasciato lì una parte dei suoi documenti di lavoro. Ma Ashley non voleva violare il regno dello zio. Non le sembrava giusto.
Non entrò. Tirò dritta e se ne andò in camera. Appena fu nella stanza però provò una strana sensazione. Il cuscino era stato spostato. Un cassetto del comodino era leggermente aperto.
Si appoggiò alla porta, preoccupata. Forse i nervi iniziavano a cederle. Provò a chiamare David Wharton, ma le rispose la segreteria telefonica. Delusa, riagganciò senza lasciare messaggi. Poi cercò Karen. Di nuovo la segreteria. Fece appena in tempo a chiudere la comunicazione che il telefono squillò. Era Jan.
«Ciao, avevo proprio bisogno di parlarti.» Ashley le raccontò della spina staccata, di come aveva reagito Nathan e del servizio di vigilanza.
«Io non ho inciampato proprio in un bel niente» rispose Jan indignata. «La polizia avrebbe dovuto pensarci prima a far proteggere Stuart.»
«Credo che non possano fare molto. Nessuno ha visto niente. È la parola dei dottori contro la nostra.»
«Aspetta che lo sappia Karen. Andrà su tutte le furie. A proposito, è proprio per questo che ti ho chiamato, non riesco a trovarla. Ha avvertito la scuola che non si sentiva bene, ma a casa non c'è.»
«Lo so. L'ho cercata anch'io. Non ti sembra un po' strano?»
Jan rise. «Forse è ancora con quel poliziotto. Dispersa in una romantica e piacevole avventura.»
«No, non credo proprio.»
«Perché?»
«Perché l'ho visto. Len è qui al bar, in questo preciso momento. E prima era all'ospedale per il turno di guardia.»
«Ah.» Jan tacque per qualche istante, perplessa. «Forse dovremmo passare a casa sua a dare un'occhiata.»
«Non è che non la sentiamo da mesi.»
«Sì, ma si tratta di Karen. Mi richiama sempre quando le lascio un messaggio. Non è da lei.»
«Hai ragione» ammise Ashley. «Forse è il caso di fare un salto lì.»
«Io lavoro, stasera. Ho potuto chiamarti solo adesso perché sono in pausa. Pensi che le sia successo qualcosa?»
«Ma no, certo che no. Vado a casa sua a controllare. Magari sta male, è a letto e non può rispondere al telefono. Hai provato dai genitori?»
«Sì, non è lì. Ho fatto finta di niente, non volevo metterli in allarme.»
«Allora vado subito.»
«Hai le chiavi?»
«Ho le chiavi e conosco il codice per disattivare l'allarme.»
«Vorrei poter venire con te, non mi piace che tu vada da sola.»
«Ho studiato da poliziotto, ricordi?»
«Chiamami appena sai qualcosa. Non posso rispondere al telefono, ma controllerò la segreteria.»
«Sono sicura che ci stiamo preoccupando per niente.»
Jan rimase in silenzio.
«Vado. Ti lascio un messaggio appena arrivo lì.»
Prima di uscire dalla stanza, Ashley si guardò ancora una volta in giro.
Non mancava niente, eppure le cose erano state spostate.
I dettagli stavano diventando un'ossessione. Forse Nick era venuto a cercare qualcosa. La porta non era mai chiusa a chiave.
Oppure era stata Sharon.
Sharon aveva venduto la casa, la casa dove Ashley era stata quel pomeriggio, la casa il cui indirizzo Stuart Fresia aveva scarabocchiato su un foglio. Stuart, che adesso era in ospedale, fra la vita e la morte.
E ora Karen.
Starsene lì a pensare non sarebbe servito a niente. Ashley controllò che la pistola fosse nella borsa e uscì.
Navigarono a lungo fra i canali. A Jesse non sembrava dispiacere il fatto di perdere tempo in una ricerca che forse non avrebbe portato a nulla. Alla fine tornarono a casa di Jesse. Era una costruzione nascosta fra gli alberi, al punto che solo chi ne era a conoscenza avrebbe potuto arrivarci. Una volta dentro, Jesse gli chiese se voleva mangiare qualcosa.
«Cosa?» chiese Jake sospettoso.
«Niente radici o cose etniche, non preoccuparti. Solo banale prosciutto, salame o formaggio. Forse ho anche della frutta.»
Jake si preparò un panino. Jesse intanto tirò fuori una mappa e la distese sul tavolo.
«Così, dopo l'incontro con Peter Bordon credi che la setta fosse solo una copertura.»
«È possibile. I nostri uomini hanno controllato i gruppi religiosi. Non abbiamo trovato niente. La maggior parte si limita a uccidere qualche pollo per i loro riti sacrificali. Non ammazzano la gente. E non abbiamo nessuna prova che colleghi la setta di Bordon con gli omicidi. Bordon non è mai stato incriminato per omicidio.»
«Lo so, però ai tempi erano in molti a credere che il mandante fosse lui.»
«Ne ero convinto anche io.»
«Adesso non più?»
«Credo che fosse coinvolto, in qualche modo. Ma comincio a dubitare che fosse lui la mente. L'ultima vittima era un'agente immobiliare. E gli immobili di cui si occupava erano tutti nella stessa zona dove stava Bordon. L'unico collegamento a cui riesco a pensare è che tutte le proprietà possono essere raggiunte attraverso i canali delle Everglades. E sai anche tu che i canali sono il regno di contrabbandieri, omicidi, ladri e criminali di ogni tipo. Inoltre parliamo di proprietà così vaste che non se ne conoscono neanche le dimensioni. È abbastanza logico supporre che il caso abbia a che fare con qualcosa che viene introdotto nello Stato illegalmente.»
«Droga? Clandestini? Armi? Il traffico d'armi è piuttosto vasto» osservò Jesse.
Jake annuì. «Però sia le armi sia le persone richiedono mezzi di trasporto abbastanza grandi. Io sarei più per il traffico di droga.»
«Dirò ai miei uomini di stare all'erta.»
«Secondo me si tratta di eroina. O cocaina. Pacchetti piccoli. E un ottimo margine di guadagno.»
«Se sento qualcosa di strano ti faccio sapere.»
«Grazie.»
Jake salutò Jesse e se ne andò. Controllò il telefono. Era strano che non avesse squillato per ore. Ma nella palude non c'erano antenne, nessun segnale. Dovette guidare per un bel pezzo prima di poter ricevere i messaggi della segreteria.
Lo avevano cercato Franklin e Marty. Nessuno dei due aveva novità di rilievo. Al momento i poliziotti setacciavano la zona per mostrare l'identikit e cercare di scoprire qualcosa sugli ultimi giorni della vittima.
Il terzo messaggio era strano. Jake non riconobbe la voce e neppure il nome. Era un uomo, che parlava a bassa voce, in tono nervoso.
«Chiamo da parte di Peter Bordon. Vuole parlarle. Senza fanfara, ci siamo capiti? Da solo. Se viene con la polizia l'incontro salta.»
Len era ancora al bar con Sandy e Curtis. Ashley li raggiunse.
«Per caso hai sentito Karen?»
Len scosse la testa.
«Ti ha detto se oggi aveva qualcosa di particolare da fare?» insistette Ashley.
«No, mi spiace, ma non mi ha detto niente.»
«Grazie. Allora faccio un salto da lei.»
Uscì dalla porta della cucina.
Prima di salire in macchina si accertò di avere le chiavi di Karen a portata di mano, per non perdere tempo una volta lì.
Mentre guidava si ripeté che probabilmente lei e Jan avevano esagerato. Non c'era motivo di preoccuparsi tanto. In fondo non avevano notizie di Karen solo da un giorno. Non c'era niente di così strano.
Ashley attraversò la città. Miami di notte diventava ancora più suggestiva. Aveva un che di magico. L'oscurità nascondeva le zone più trascurate e l'oceano si colorava della luce argentata della luna.
Eppure era proprio col favore delle tenebre che avvenivano i delitti più spietati.
Quando arrivò davanti a casa di Karen, Ashley vide l'auto dell'amica parcheggiata nel vialetto. Al solito posto. Sembrava tutto normale. Nulla di strano.
Allora, perché Karen non rispondeva al telefono?
Prima di scendere, Ashley osservò la casa per qualche secondo. Il portico era al buio. La luce esterna era spenta. Uscì dall'auto e si diresse verso il portone. Una volta sul portico, guardò fra le ombre dei rampicanti accanto all'ingresso, nervosa. Maledisse Karen per non aver lasciato la luce accesa.
Suonò il campanello, poi bussò e chiamò Karen a voce alta.
Nessuna risposta.
Infilò la chiave nella serratura e aprì. Chiamò di nuovo.
Silenzio.
Entrò, disattivò l'allarme e richiuse a chiave la porta.
E se qualcuno aveva aggredito Karen? Se era ancora in casa? Forse si era appena chiusa dentro con un malvivente.
«Karen!» gridò.
Il salotto era accogliente come sempre. Da lì riusciva a vedere la cucina e il tinello. Tutto pulito e in ordine, niente fuori posto. Le foto sulla libreria. Le riviste impilate sul tavolino. I cuscini ben sprimacciati sul divano.
«Karen!» chiamò ancora.
Andò in cucina. Anche lì non c'era niente fuori posto. Nessun piatto sporco nel lavandino. Delle tre, Karen era la più metodica e ordinata.
Ashley si affacciò alla porta del piccolo bagno nel corridoio. Vuoto.
Entrò nella stanza degli ospiti, dove c'era la scrivania di Karen con il computer. Pulita e in ordine. Ogni foglio al suo posto, le buste perfettamente impilate in un angolo del tavolo, le matite allineate accanto alla tastiera.
Ashley si diresse verso la camera da letto.
La porta era chiusa.
«Karen?» chiamò piano.
Ancora nessuna risposta.
Posò la mano sulla maniglia. Stava per aprire, quando sentì qualcuno bussare con forza all'ingresso. Ashley sussultò e senza volerlo abbassò la maniglia. La porta si mosse appena.
La stanza era al buio.
Ancora quei colpi.
Incurante del frastuono, Ashley accese la luce.
I tramonti erano magnifici da quelle parti. Il cielo si tingeva di colori pastello e di mille sfumature, ed era striato d'oro dagli ultimi raggi del giorno. Quando però scendeva la notte, nelle Everglades l'oscurità pareva senza fine.
Ormai era buio, il mondo reale sembrava svanito nel nulla. L'unico segno di vita erano i fari delle auto che venivano verso di lui.
Poi Jake vide il mondo tornare a prendere forma, fra le luci della città. Passò accanto al casinò di Miccosukee. Poco dopo avrebbe attraversato la zona che un tempo era stata il regno delle prostitute. Molte di loro erano state strangolate e i loro corpi martoriati erano stati ritrovati dopo giorni. L'omicida si riteneva astuto e intelligente. Ma non lo era. Aveva commesso un errore, si era tradito ed era stato arrestato. Dopo c'era la periferia della città, altro scenario del crimine. Delitti a sfondo passionale, regolamenti di conti tra malavitosi. Ma la violenza per le strade aveva spesso dei testimoni oculari. E una gran quantità di indizi.
Ci sono sempre degli indizi. Nessun delitto è perfetto. Eppure, nonostante gli sforzi della polizia e gli strumenti più sofisticati della scientifica, c'erano crimini che rimanevano irrisolti.
Non questo, si disse Jake. Aveva in mano qualcosa, lo sapeva. Possedeva tutti i pezzi del rompicapo. Si trattava solo di farli combaciare.
Il giorno dopo lo aspettava un lungo viaggio. La telefonata poteva anche essere uno scherzo di pessimo gusto. Tutto ciò che sapeva, dopo aver identificato il numero, era che era stata fatta dal carcere.
L'istinto però gli diceva che c'era davvero Peter Bordon dietro quella telefonata. Bordon aveva sempre saputo la verità. Ma fino a quel momento non aveva mai voluto rivelare o ammettere niente.
Aveva cambiato idea? E se sì, perché?
Paura? Di qualcuno all'esterno? O all'interno del carcere?
Bordon era anche un manipolatore. Non c'erano garanzie. Forse si divertiva semplicemente a farlo andare su e giù per il Paese come uno yo-yo.
Comunque star lì ad arrovellarsi era inutile. Più tardi avrebbe provato a telefonare alla prigione e il mattino dopo sarebbe partito all'alba.
Una volta in città, Jake non svoltò a sinistra, verso la centrale di polizia, né andò dritto per tornare alla barca. Era tardi e non aveva avvisato del suo arrivo, ma voleva tornare a parlare con Mary Simmons.
La sede degli Hare Krishna era un bell'edificio, nei pressi di un parco tranquillo e ben curato, con un suo fascino particolare. Di notte, pochi isolati più avanti, la zona si animava grazie ai negozi, ai ristoranti e ai locali notturni. Spesso i Krishna sceglievano quelle strade affollate per raccogliere soldi.
Al suo arrivo, però, l'edificio era immerso nel silenzio. Il ragazzo che gli aprì la porta aveva la testa completamente rasata, fatta eccezione per un lungo ciuffo che partiva dal centro della testa. Era giovane, con lo sguardo aperto e sereno di chi ha deciso di vivere in pace con il mondo. Prima ancora che Jake gli mostrasse il distintivo, fu gentile e premuroso.
Andò subito a cercare Mary.
Non sembrò affatto stupita di vederlo e lo invitò a seguirla in giardino, dove avrebbero potuto parlare con calma.
Jake andò subito al punto. «Se ho capito bene, Bordon ogni notte poteva avere la donna che sceglieva, e tutte erano libere di dormire anche con altri, se lo desideravano. Nessuna gelosia.»
Lei annuì con un sorriso triste. «Volevamo tutte Peter, naturalmente. È difficile riuscire a spiegare come sia possibile che un uomo riesca a farsi desiderare tanto da una donna, anche se lei sa di non essere l'unica. C'erano altri uomini. John Mast, per esempio.» Sospirò e si aggiustò le pieghe del vestito arancione. «Ho saputo che è morto.» Lo guardò e quando riprese a parlare c'era più enfasi nella sua voce. «Ma non ha ucciso quelle donne perché era geloso di Bordon, perché lo preferivano a lui. John era un vero credente. Credeva in quello che facevamo, nella condivisione dei frutti della terra, nell'amore reciproco. Era un uomo buono. E intelligente. Penso che sapesse che sarebbe potuto finire nei guai per come amministravano i soldi, perché più di una volta l'ho sentito discutere con Peter. Era molto preoccupato. Ma Peter non gli ha dato retta. Sto male quando penso a John. Andò in prigione senza dire una parola, lo accettò come atto di obbedienza. E ora è morto.»
«Mi dispiace, Mary. Ma non sono venuto qui perché penso che qualcuno dei tuoi amici fosse malvagio. Sono sicuro che ci fosse dell'altro. Qualcosa di cui nessuno di voi sapeva niente.»
Mary si strinse nelle spalle. «È possibile. Qualsiasi cosa fosse, Peter doveva esserne al corrente. Era lui che ci diceva quando restare nelle camere, quando uscire e quando andare a lavorare.»
«Hai mai visto qualche imbarcazione lungo il canale?»
«Certo. Tutti i giorni.» Sorrise. «Ma credo che ce ne siano parecchie anche adesso. Piccole imbarcazioni. Canoe, barche a remi, a motore. È per questo che la gente va a vivere in quella zona, detective.»
Anche lui sorrise. «Lo so, Mary. Hai mai visto qualche barca fermarsi o scaricare qualcosa per Peter dietro alla casa?»
«È possibile. Non lo so. Nessuno mi ha mai chiesto di dare una mano a scaricare. E poi, cosa si può trasportare con un'imbarcazione così piccola come quelle che riescono a navigare i canali? Ci sono gli idroscivolanti. Ma fanno rumore. Ne sentivamo qualcuno, di tanto in tanto. Però non si sono mai fermati da noi. Non che io ricordi.»
«E canoe?»
Esitò. «Forse. Qualche volta. A notte fonda, mentre ero nella camerata, mi è capitato di sentire dei rumori. Ma non ci era consentito uscire. Dovevamo restare sempre nel posto che ci avevano assegnato. Era la regola.»
«Forse non tutti hanno obbedito. Forse è per questo che le ragazze sono morte.»
Sul viso le passò un'espressione di dolore. «Forse.»
«È vero che avevate droga? Molta droga a disposizione?»
«Molti afrodisiaci» mormorò. Lo guardò negli occhi. «D'accordo. Un sacco di droga. Ma non in vena o roba simile. Perlomeno, non io. Io sono pulita. Come tutti quelli che vivono qui.»
«Non sono qui per darvi fastidio. Voglio solo incastrare un assassino.»
«Avevamo tutta la droga che volevamo.»
«Grazie Mary. Se ti viene in mente qualcos'altro...»
«Lo so, la chiamo. Vorrei tanto aiutarla, detective. Mi creda.»
«Ti credo.»
Jake si avviò verso l'uscita.
Mary lo seguì. «Detective?»
«Sì?»
Esitò un attimo. «So come la pensa su Bordon. Ma non credo che abbia mai tagliato la gola a una donna.»
«Però sa chi è stato a farlo.»
18
Nulla.
La stanza di Karen era in perfetto ordine, come il resto della casa. Il copriletto ben disteso, i cuscini allineati contro la testata. Era tutto come doveva essere.
Altri colpi alla porta. Poi d'un tratto il silenzio.
Ashley si allontanò dal letto e uscì dalla stanza. Arrivò alla porta d'ingresso e guardò attraverso lo spioncino. Non c'era nessuno.
Quindi sentì uno scalpiccio. Qualcuno camminava lungo i muri esterni della casa. Poi un rumore lieve contro la finestra del soggiorno. Estrasse la pistola e spalancò la porta.
Uscì nel portico e vide una sagoma sbucare da dietro l'angolo.
«Fermati dove sei!» urlò.
«Ashley?»
Sospirò e abbassò l'arma.
«Len? Che cosa ci fai qui? Perché ti aggiri in giardino in quel modo?»
«Io? Tu piuttosto, cosa combini? Sembra che stasera ti sia messa in testa di spararmi addosso.» Le si avvicinò. «Ho bussato e non hai risposto. Mi hai fatto preoccupare per Karen. Poi vieni qui e non mi apri. Quei colpi alla porta avrebbero svegliato un morto.»
«Ero nell'altra stanza.»
«Hai trovato qualcosa?»
«No» rispose a bassa voce. «Non credo. Ma voglio fare un altro giro di controllo. Come sei arrivato fin qui?» chiese preoccupata.
«Perché fai quella faccia? Non ho guidato in stato di ebbrezza. Ho chiesto a Sandy di accompagnarmi.»
«Fantastico, così è Sandy che ha guidato dopo aver bevuto.»
«No. Stasera ha bevuto solo birra analcolica. Davvero.»
«Ma perché sei venuto?»
«Ero preoccupato di saperti qui da sola.»
«Len, non cominciare. Hai intenzione di preoccuparti per tutte le donne della polizia?»
«Tu non ne fai più parte. Sei un'impiegata civile. E forse hai dimenticato che è normale procedura nella polizia chiedere copertura quando si va in azioni pericolose.»
Era credibile. A modo suo, cercava di rendersi utile.
«D'accordo, entra per qualche minuto. Voglio fare ancora un giro per la casa.»
Len la precedette all'interno. Si diresse con passo deciso prima verso la stanza degli ospiti e poi in camera da letto. Ashley si chiese come facesse a conoscere la casa tanto bene. Quindi si rese conto che non era ancora stata nel bagno principale. Entrò, con Len alle spalle.
A una prima occhiata il bagno sembrava immacolato come il resto della casa. Scostò la tenda della doccia. Le piastrelle erano perfettamente pulite.
Poi scorse tre piccole macchie sul fondo della vasca. Si accucciò. Solo tre. Tre piccole macchie di qualcosa che sembrava ruggine.
O sangue.
Ashley sentì il cuore salirle in gola. Forse erano solo tre semplici macchie. Non sapeva neppure se era davvero sangue. E anche in quel caso, era così poco che non c'era da preoccuparsi.
Eppure...
Si alzò di colpo e andò in cucina. Frugò in un armadietto e trovò una confezione di sacchetti di plastica per surgelare, poi prese un coltellino di plastica dal cassetto dove Karen teneva l'attrezzatura per il campeggio.
«Cosa c'è?» chiese Len.
«Forse niente» rispose.
Lo oltrepassò e tornò nel bagno, dove si inginocchiò e scrostò le macchie con il coltello di plastica per poi farle scivolare nel sacchetto, che infilò in borsa. Si alzò. Len era sulla soglia, la guardava.
«Cosa c'è che non va?»
«Niente. Forse esagero.»
«Ma cosa hai fatto?»
«Ho solo controllato la vasca.»
Len era davvero molto alto. Le sue spalle riempivano la porta. L'immaginazione correva veloce. E se fosse stato un assassino?
Ashley aveva la pistola in borsa e sapevano entrambi che era in grado di usarla.
«Andiamocene» borbottò Ashley, dirigendosi verso la porta del bagno. «È chiaro che Karen non è qui.»
Per un attimo sembrò che Len non si sarebbe mosso. Che volesse impedirle di uscire. Poi si spostò.
«Lo so che conosci la tua amica meglio di me, ma credo che tu stia esagerando. Sono sicuro che sta bene. Anche la tua migliore amica può avere dei segreti.»
«Forse.»
«Ashley, ragiona. Ha solo avvertito che non poteva andare a lavorare e non ha risposto alle tue telefonate.»
«Sì, probabilmente hai ragione. Cercherò di non farmi prendere dall'ansia senza motivo. Ho bisogno di dormire.» Aspettò che lui uscisse per primo. Sembrò indeciso, poi si mosse.
«Ti accompagno a casa» annunciò Ashley.
«No, grazie. Curtis mi aspetta da Nick. Mi dà lui un passaggio.»
Salirono in macchina. Dopo un po', Len ruppe il silenzio. «Karen non ha altri amici, oltre a te e Jan?»
«Hai ragione. Forse è fuori con altri amici.»
Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Frugò nella borsa e rispose. Era Jan.
«Allora?»
«Non era a casa. La macchina è nel vialetto e l'appartamento è perfettamente in ordine.» Non disse delle macchie nella vasca. Non c'era motivo di preoccupare Jan. Almeno finché non avesse saputo con certezza di che cosa si trattava.
L'indomani ne avrebbe parlato con Mandy Nightingale. Era sicura che le avrebbe dato retta e che l'avrebbe aiutata. Non conosceva da molto Mandy, ma sapeva che non l'avrebbe presa in giro. E all'occorrenza, c'era sempre Jake.
«Stai bene?» chiese Jan, preoccupata. «Non avrei dovuto lasciarti andare da sola.»
«Non ero sola. Non sono sola.»
«Come no?»
«Sono con Len Green.»
«Bene. Sei con un poliziotto.»
Un poliziotto che poteva non essere quello che sembrava, ragionò Ashley, per poi pentirsi subito dopo delle sue supposizioni.
«E adesso, cosa facciamo?» chiese Jan.
«Aspettiamo. Stiamo a vedere se torna stanotte. Se non la sentiamo neanche domani ne denunciamo la scomparsa. E lasciamo che se ne occupi la polizia.»
«Non sono passate neanche ventiquattro ore» le ricordò Len.
Ashley lo ignorò. «Proviamo di nuovo a chiamarla, stanotte» disse. Poi lei e Jan si salutarono.
Poco dopo erano posteggiati davanti a Nick.
«Sei sicuro di avere un passaggio per tornare a casa?» chiese Ashley prima di spegnere il motore.
«Sì. Curtis ha promesso di aspettarmi. Voleva sapere com'era andata.»
«Allora me ne vado a dormire.»
Scesero. Len la guardò da sopra il tetto della macchina.
«Buonanotte, Ashley.»
Si sentì ridicola e in colpa. «Len?»
«Sì?»
«Grazie per essere venuto in mio aiuto.»
«Di nulla. Fammi sapere. Anch'io... tengo a Karen.»
Len si diresse verso l'entrata principale. Ashley invece passò dall'ingresso privato.
«Sharon?» chiamò. «Nick?»
Nessuna risposta. Non aveva voglia di cercarli al bar e andò in camera. Questa volta non notò nulla di strano. Crollò a letto, esausta.
Jake stava per raggiungere la macchina, quando il telefono squillò. Era Carnegie.
«Ci sono novità?» volle sapere subito Jake.
Si sentì in colpa. Aveva promesso ad Ashley che si sarebbe interessato al caso, ma non aveva più neppure pensato a Stuart Fresia.
«Non proprio, ma ho deciso di parlare ancora con quel ragazzo, il giornalista, il collega di Fresia. E sai che cosa ho scoperto? Che non esiste.»
«Come non esiste? Non è stato forse lui a insistere perché si indagasse sull'incidente, a dire che Stuart Fresia doveva avere scoperto qualcosa?»
«Sì. Ma oggi, quando ho provato a chiamarlo, ho scoperto che il numero di telefono che mi ha dato è quello di una pizzeria. Allora sono andato alla sede del giornale e ho chiesto all'ufficio del personale il numero della sua previdenza sociale. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che appartiene a un uomo morto nella seconda guerra mondiale. Sono andato all'ospedale, non si era mai mosso da lì. Ma è sparito di colpo. Non so come interpretare la cosa. A questo punto ho richiesto e ottenuto che sia il dipartimento di polizia a occuparsi della sorveglianza. Volevo solo che tu lo sapessi.»
«Grazie, Carnegie. Grazie mille. Domani sarò fuori città per tutto il giorno, ma mi trovi sul cellulare. Informami, se ci sono novità. Quando torno vorrei fare qualche indagine per conto mio, se non ti spiace.»
«Perfetto, ti terrò informato.»
«Vedo che lavori fino a tardi» aggiunse Jake, dopo aver guardato l'orologio.
«Non è poi così tardi. E sono pronto a scommettere che anche tu ne fai parecchi di straordinari.»
«Che dici, moriremo giovani?»
Carnegie scoppiò a ridere. «Per me è già troppo tardi» mormorò divertito. «Tu piuttosto, stai attento.»
Terminata la telefonata con Carnegie, Jake pensò di chiamare Marty per avvisarlo che l'indomani non sarebbe stato in ufficio. Poi cambiò idea. Probabilmente a quell'ora Marty era già a casa. Dopotutto lui aveva una vita privata.
D'un tratto ebbe voglia di tornare alla barca. Aveva molte cose da raccontare ad Ashley.
Mentre guidava, telefonò a Blake e lo informò su ciò che aveva intenzione di fare. Blake gli ricordò che non era il solo a seguire il caso e che si aspettava un rapporto dettagliato sui suoi spostamenti. Gli disse che se quella telefonata dal carcere era vera, faceva pensare che Bordon avesse paura di tutti, tranne che di lui. Comunque fosse, il capitano approvò la sua decisione di andare all'appuntamento.
Quindi Jake chiamò la prigione e organizzò l'incontro con Bordon, in forma privata, per la mattina successiva.
Bordon, era lui la chiave. Ne era certo.
Interrogarlo per ore non era servito a farlo confessare. Neppure la minaccia della pena di morte o la prospettiva di trascorrere lunghi anni in prigione erano bastate a spezzare il suo silenzio. E proprio adesso che stava per uscire dal carcere, aveva voglia di parlare.
Jake si chiese come avrebbe reagito se Bordon avesse ammesso la sua complicità negli omicidi di quelle donne.
E di Nancy.
Ashley era convinta che si sarebbe addormentata all'istante. Era a pezzi. Invece niente. Non riusciva a smettere di pensare. Era agitata. Si alzò.
Proprio quella notte, quando aveva bisogno di parlare con Sharon, lei e Nick avevano deciso di defilarsi. Non riuscì a mettersi in contatto con David Wharton e Karen non era ancora tornata a casa.
Telefonò all'ospedale e s'informò sulle condizioni di Stuart. Stazionario. Riprovò a chiamare David Wharton ma non ottenne risposta. Quando riagganciò, le venne in mente che forse Jake aveva scoperto qualcosa.
Anche se non aveva novità, aveva comunque voglia di vederlo.
Uscì dalla porta che dava sul molo e cercò con lo sguardo la Gwendolyn. Esitò per un attimo, poi attraversò il breve tratto di erba e sabbia e si diresse al molo. Vide che la porta della barca era socchiusa.
«Jake?»
La porta si spalancò.
Ashley riconobbe l'uomo che usciva, con una valigetta in mano. Lo aveva incontrato durante il giro di presentazioni alla scientifica. Si chiamava Skip Conrad, era l'esperto delle impronte digitali.
La vide arrivare. «Ciao, Ashley» la salutò, imbarazzato. «Che ci fai qui? Vivi da queste parti?»
«Nick è mio zio.»
«Tuo zio?»
Skip era magro, con i capelli castani piuttosto radi, le fossette e un'espressione da ragazzino in netto contrasto con il fatto che fosse quasi calvo.
«Non sapevo che Nick si chiamasse Montague di cognome.»
«Già, sull'insegna c'è scritto soltanto Nick» convenne Ashley con un sorriso. «È tardi. Il suo turno è finito da un pezzo. È qui per rilevare le impronte sulla barca di Jake?»
«Non ufficialmente.»
Ashley sorrise. Forse lei era piena di ossessioni, ma anche Dilessio non scherzava. E lui non era un pivellino.
«Mi ha detto dei suoi sospetti che qualcuno si fosse introdotto sulla barca. Siamo amici.»
«Anche per me Jake è un amico» borbottò Skip con una scrollata di spalle. «Mi ha sempre aiutato, quando ha potuto, così questa volta gli ho ricambiato il favore. Anche se non credo che gli sarò molto utile. Non ho trovato granché. Sembra che sia stato tutto ripulito con cura. Ho trovato alcune impronte, ma sono pronto a scommettere che risulteranno tutte di Jake.»
«Comunque è stato gentile ad aiutarlo.»
Skip sembrò sollevato, forse temeva che lei potesse farne parola con gli altri della centrale. «Dato che vivi qui, posso lasciarti la chiave di Nick?»
«Certo.»
«Chiudi tu?»
«Sì, non si preoccupi.»
«Mi ha fatto piacere incontrarti.» Ma la sua espressione diceva l'esatto contrario.
«Anche a me, signor Conrad.»
Sorrise. «A dire la verità sono un agente. Ma chiamami pure Skip.»
«Ha terminato l'accademia, prima di entrare nella scientifica?»
Scosse appena la testa poi abbozzò un sorriso triste. «Quando mi hanno offerto questo lavoro ho afferrato al volo l'occasione. Dopo qualche anno ho terminato gli studi. Farai anche tu così. Ho sentito dire che abbiamo assunto Rembrandt.»
«Non sono così brava.»
«Comunque sia, benvenuta fra noi. Buonanotte.»
Salutò e se ne andò. Prima di chiudere, Ashley sbirciò all'interno. Rabbrividì. Skip aveva lasciato un gran disordine. Decise di dare una sistemata.
Esitò. Forse Jake si sarebbe arrabbiato. In fondo era come violare la sua privacy.
Alla fine decise di entrare. Chiuse la porta, andò in cucina e cercò una spugna e il detersivo. Dopo aver pulito la cucina, si dedicò al soggiorno e alle due cabine. Quando ebbe terminato, la barca aveva cambiato aspetto.
Non voleva tornare a casa. Era troppo nervosa, non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Così andò in cucina e si versò un bicchiere di succo di frutta. Si appoggiò al bancone. Vicino al telefono c'erano un blocco e una matita. Cominciò a fare qualche schizzo, distrattamente.
Disegnò Karen.
Girò pagina. Len.
Girò di nuovo pagina e iniziò a disegnare la scena dell'incidente. Inserì ogni dettaglio che le veniva in mente.
Quello schizzo era il migliore fra tutti quelli che aveva fatto. Il tempo le aveva chiarito le idee. Aveva ricordato molti dettagli che prima le erano sfuggiti. Ma ancora non riusciva a capire la dinamica dell'incidente.
Voltò pagina per l'ennesima volta e fece il ritratto di David Wharton.
Poi smise. Non riusciva a stare ferma, non vedeva l'ora che Jake tornasse. Posò la matita e si guardò attorno. Aveva fatto un ottimo lavoro.
Solo il tappeto era ancora sporco.
Tanto valeva fare le cose fino in fondo. Cercò l'aspirapolvere e lo passò e ripassò sul tappeto fino a quando non fu soddisfatta. Quando lo spense, sentì un rumore di passi sul ponte.
«Jake?»
Nessuna risposta. Iniziava a diventare paranoica. Rimase ferma a lungo e non sentì altro.
Mise a posto l'aspirapolvere e uscì sul ponte. Chiuse la porta e infilò la chiave in tasca.
Il bar era illuminato, si sentivano le risate dei clienti e dal juke-box uscivano note di musica country. L'oceano lambiva tranquillo gli scafi e le imbarcazioni ondeggiavano piano agli ormeggi.
Guardò di nuovo verso il bar. Il portico era illuminato, ma non c'erano clienti, nessuno che si godesse la stellata e il chiaro di luna.
Sentì un tonfo e si voltò di scatto. Fu investita da una folata di vento, poi una spinta alle sue spalle la sollevò per aria e la sbalzò dal ponte.
Presa alla sprovvista, cadde nella distesa di acqua scura, fra i riflessi increspati della luce della luna.
Un tuffo nel buio. Subito dopo sentì il rumore di qualcosa che cadeva in acqua a sua volta a poca distanza da lei.
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